La scuola nell’epoca della sua aziendalizzazione

1. Scuola e società

Con la legge dell’11 Floreale dell’anno X (1° maggio 1802), la Francia napoleonica dava l’avvio all’istruzione secondaria europea nelle forme precorritrici di quelle che ancora oggi conosciamo e strutturava razionalmente la gestione dei diversi ordini e gradi scolastici. In tal modo confermava e dettagliava dal punto di vista territoriale e istituzionale quello che era stato l’orientamento del governo fin dalle prime fasi della Rivoluzione: considerare l’istruzione della popolazione una necessità collettiva, renderla obbligatoria entro un limite di età fissato, e attribuirne la responsabilità allo Stato e alle sue articolazioni locali.

Da allora nessun paese è considerato virtuoso se le sue istituzioni statali falliscono nel soddisfare quella necessità. Si tratta di una concezione che è divenuta senso comune, mai del tutto negata nemmeno dai più strenui sostenitori dell’iniziativa privata in ogni aspetto della vita.

Una conseguenza di tutto ciò, storicamente verificabile con facilità, è che se la scuola di un paese cambia, vuol dire che in quel paese è cambiata la società. E non c’è forza in grado di cambiare la scuola di un paese se il suo assetto sociale non viene messo in discussione. Non per un caso la moderna scuola pubblica è nata da una rivoluzione.

L’Italia, negli ultimi trent’anni circa, è stata attraversata da una sequenza pressoché ininterrotta di riforme del sistema dell’istruzione pubblica: alcune abortite, altre lasciate in sospeso, altre ancora condotte a fondo. Se tali riforme e tentativi di riforma fossero stati in contraddizione fra loro, dovremmo dedurre che il trentennio appena trascorso sia stato un periodo di continui rivolgimenti sociali. Ma basta uno sguardo superficiale a capire che si è trattato dei successivi passaggi di un unico processo, sviluppatosi lungo una linea di tendenza in sé coerente. Dunque il rivolgimento è stato uno solo, così esteso e profondo da avere bisogno di tre decenni per compiersi. E, in ragione di quanto fin qui sostenuto, tale rivolgimento non deve avere fatto altro che adeguare la scuola italiana a dei mutamenti in atto nella società. Di quali mutamenti si è trattato?

Nel periodo a cui ci riferiamo, la società italiana si è caratterizzata per una privatizzazione massiccia in tutti i settori strategici: dalle infrastrutture all’energia, dalle comunicazioni alla sanità, dai trasporti ai beni culturali. Il lavoro diveniva sempre più precario e deregolamentato e i diritti dei lavoratori venivano ridotti e ridefiniti per andare incontro alle richieste delle imprese (la cosiddetta flessibilità). Parallelamente si faceva strada, in tutti gli strati sociali, una mentalità che assume come propri della persona gli interessi, i punti di riferimento, gli schemi di ragionamento e finanche il linguaggio del mondo aziendale. L’impresa privata, che, come in ogni società capitalistica, era già il soggetto su cui si basava il tessuto economico e le cui esigenze erano poste a base dell’ordinamento giuridico e legislativo e dell’orientamento dei governi, diveniva anche il modello a cui ispirare la vita stessa degli individui.

Il punto culminante del processo descritto è rappresentato dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), giunto a ideale conclusione del trentennio. Come è noto, si tratta di un progetto per il rilancio della società italiana dopo una prolungata fase di crisi che data almeno dal 2008-2009, e il cui picco negativo determinato dalla pandemia da Covid-19 (ma che sta per essere superato dagli effetti della guerra in corso) ha avuto un impatto particolarmente traumatico su tutti i fronti. Il Piano è l’attuazione su scala nazionale del programma Next Generation EU, elaborato e finanziato (solo in parte a fondo perduto) dall’Unione Europea, la quale monitora il rispetto dei parametri a cui il finanziamento stesso è condizionato mediante l’imposizione di obiettivi semestrali ai quali gli stati beneficiari sono vincolati. Si articola in 16 Componenti raggruppate in 6 Missioni. Al paragrafo Missioni e Componenti del Piano1 si elencano e si descrivono per sommi capi tali sezioni: una rapida scorsa chiarisce i principi ispiratori.

La Missione 1 è denominata “Digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura”: l’accostamento dei termini parla da sé. La Missione 2 “ è volta a realizzare la transizione verde ed ecologica della società e dell’economia per rendere il sistema sostenibile e garantire la sua competitività”: altra associazione terminologica che non ha bisogno di commenti. La 3 (Infrastrutture per una mobilità sostenibile) “ si pone l’obiettivo di rafforzare ed estendere l’alta velocità ferroviaria nazionale e […] Potenzia i servizi di trasporto merci secondo una logica intermodale in relazione al sistema degli aeroporti. La 4 (Istruzione e ricerca) “rafforza gli strumenti di orientamento e riforma il reclutamento e la formazione degli insegnanti”. La Missione 5 (Inclusione e coesione) “sostiene il sistema duale e l’imprenditoria femminile e […] promuove il ruolo del terzo settore nelle politiche pubbliche”. Infine, la Missione 6 (Salute) “Sostiene le competenze tecniche, digitali e manageriali del personale del sistema sanitario”.

L’insistenza su concetti come “competitività” e “competenze manageriali”, significativamente anche con ruolo decisivo in ambiti quali la cultura, la sanità e la “transizione verde”, nonché il rilievo dato a programmi quali l’alta velocità e il sistema duale, confermano che si sta parlando di informare l’intera società ai principi aziendali. Il ruolo assegnato al terzo settore nelle politiche pubbliche, poi, è una variante della cosiddetta sussidiarietà: affidamento a soggetti privati di quelle responsabilità che dovrebbero ricadere sul settore pubblico per essere improntate al bene della collettività e non a interessi particolari di impresa. E nella scuola, quel rilievo dato all’orientamento e alla riforma del reclutamento degli insegnanti è un sancire definitivamente l’organizzazione per mission e la gerarchizzazione di stampo aziendale anche negli istituti preposti all’educazione.

Per dissipare ogni dubbio, è utile dare uno sguardo alla tabella di seguito riportata, che illustra gli stanziamenti di denaro all’interno di ogni Missione articolati per singole Componenti2.

La Missione 1, che piega la cultura alle logiche della concorrenza, riceve da sola più o meno la somma dei finanziamenti toccati a Salute e Istruzione; e a fare la parte del leone al suo interno è proprio la competitività del sistema produttivo (Missione 1 Componente 2). All’alta velocità/capacità ferroviaria nel trasporto di merci (Missione 3 Componente 1) è assegnata una cifra più o meno doppia di quella destinata alle politiche per il lavoro (Missione 5 Componente 1). E così via.

Se dal quadro generale del Piano passiamo agli obiettivi attuativi semestrali fissati dal governo italiano e approvati dal Consiglio dell’Unione Europea in data 8 luglio 20213, cadono ulteriori veli. Riportiamo un solo esempio, che ben inquadra il nocciolo della questione.

La misura correlata alla M1C1-70, pertinente al secondo trimestre 2022, all’obiettivo IV recita: “Ridurre progressivamente le restrizioni al subappalto”4. Cioè le imprese subiranno meno controlli su quali attività decidere di subappaltare, a chi e a che termini. Sarà quindi più difficile individuare e sanzionare subappalti che aggirino le norme in materia di sicurezza, rispetto dell’ambiente e della salute della popolazione, corretto trattamento e adeguata retribuzione dei lavoratori. Dunque un intervento per minimizzare i costi e massimizzare i profitti alle stazioni appaltanti: ancora una volta, l’interesse aziendale assunto come principio ispiratore nell’azione dell’autorità pubblica e nella destinazione dei soldi pubblici. Ogni paragrafo di ogni singola Missione è improntato a un simile orientamento, ma non è questa la sede per una disamina analitica di ciascuno di essi. Chiarito quale sia il modello sociale a cui la scuola odierna è chiamata ad adattarsi, osserviamo adesso più da vicino questo adattamento.


2. Scuola di oggi e scuola di domani

Nell’ambito Istruzione e Ricerca del PNRR, spicca quel “Dalla ricerca all’impresa” (M4C2). È chiaro infatti, dalla disamina dell’intera Missione 4, che il “Potenziamento dell’offerta dei servizi di istruzione: dagli asili nido alle università” (M4C1) è costruito come una lunga e ineluttabile preparazione di quell’esito finale: dalla culla all’impresa (al servizio di quest’ultima).

Gli obiettivi della M4C1 sono così dichiarati:

Le misure previste sotto questa componente mirano ad affrontare e superare le criticità del sistema di istruzione, formazione e ricerca italiano, con l’obiettivo di migliorare i risultati scolastici e l’occupabilità degli studenti italiani.5

Si esplicita dunque, in apertura, il seguente criterio che informa l’intera Missione. In Italia le persone istruite sono spesso disoccupate perché istruzione, formazione e ricerca sono inadeguate alle esigenze delle imprese; quindi, correggendo tale inadeguatezza, si sanerebbero ad un tempo la disoccupazione, il ritardo di scuola e università e la cronica abbondanza di posti vacanti nelle imprese dovuta alla mancanza di profili adatti nel mercato del lavoro.

Come evidenziato dai grafici di seguito riportato, i dati dimostrano che tutto ciò è falso. La massa di disoccupati in Italia è di molte volte superiore ai posti vacanti nei settori secondario e terziario (i due principali per numero di addetti). Quindi, se anche entrambi i settori raggiungessero la completa saturazione, la disoccupazione nel Paese continuerebbe ad essere una piaga di proporzioni abnormi. Ne deriva necessariamente che la Missione 4 del PNRR dichiara di volere che la scuola pubblica italiana sforni annualmente uno sterminato esercito di disoccupati costituito da persone dal profilo tratteggiato in base alle esigenze delle aziende. Così l’impresa avrà contemporaneamente un bacino d’utenza al quale poter sempre attingere e un mezzo di ricatto per contenere le retribuzioni e respingere le richieste dei lavoratori occupati.

Disoccupati e posti vacanti nel decennio 2008-2018. Settori industria e servizi (classificazione ATECO 2007). Valori assoluti in migliaia. Fonte: elaborazioni su dati ISTAT (https://coniarerivolta.org/2019/02/12/il-lavoro-manca-ma-de-bortoli-purtroppo-ce-se-sei-disoccupato-la-colpa-e-tua/)
Disoccupati e posti vacanti nel periodo 2018-2022. Settori industria e servizi (classificazione ATECO 2007). Valori assoluti in migliaia. Fonte: elaborazioni su dati ISTAT (https://https://coniarerivolta.org/2023/03/10/la-leggenda-dei-lavoratori-introvabili)

Gli interventi interni a ogni Componente vanno sotto due diverse denominazioni: Investimenti e Riforme. Gli investimenti 1.2, 1.3 e 1.46, riguardanti l’estensione del tempo pieno, il potenziamento delle infrastrutture per lo sport a scuola e il contrasto della dispersione scolastica, configurano un altro pilastro del PNRR: il cosiddetto lifelong learning. La tendenza, cioè, a sostituire la specificità dell’istruzione scolastica con una “formazione” priva di luoghi e tempi deputati e confondibile con la generica socializzazione. Si parla infatti di «ampliare l’offerta formativa delle scuole e rendere le stesse aperte al territorio anche oltre l’orario scolastico». E inoltre «si persegue la costruzione o la ristrutturazione degli spazi delle mense per almeno 1000 edifici, al fine di consentire l’estensione del tempo scolastico».

Ma tutto ciò tenendo presente che, secondo la Riforma 1.3 dell’organizzazione del sistema scolastico,

Il numero di insegnanti sarà fissato allo stesso livello dell’anno scolastico 2020/2021, a fronte del calo demografico e al fine di ridurre il numero degli alunni per classe e migliorare gradualmente il rapporto tra il numero degli alunni e il numero di insegnanti. L’attuazione dell’intervento non è intesa ad aumentare il numero di edifici disponibili.7

Tradotto: il problema delle “classi pollaio” verrà lasciato risolvere a Madre Natura. Però, all’interno di quegli edifici, si attueranno azioni volte “alla trasformazione degli spazi scolastici destinati alle classi tradizionali in ambienti di apprendimento innovativi, adattabili e flessibili, connessi e integrati con tecnologie digitali, fisiche e virtuali”.8 E immancabilmente anche

alla creazione di almeno un laboratorio per le professioni digitali in ciascuna scuola del II ciclo, strettamente interconnesso con imprese e start-up innovative per la creazione di nuovi posti di lavoro nel settore delle nuove professioni digitali (intelligenza artificiale, robotica, big data, cyber security, economia blu e verde ecc.).9

L’anello di congiunzione definitivo tra la scuola e l’impresa è l’aumento e potenziamento degli Istituti Tecnici Superiori10 come alternativa caldeggiata alla tradizionale via di istruzione terziaria costituita dall’università11. Perno della loro “offerta formativa”, lo sviluppo ulteriore degli insegnamenti STEM12, che in base all’Investimento 3.1 caratterizzeranno, in misura variabile, l’intero percorso scolastico13. Al di là del significato letterale dell’acronimo, si tratta di una torsione degli insegnamenti tecnico-scientifici verso un orientamento meramente utilitaristico finalizzato, ancora una volta, alle esigenze delle imprese14. A riprova di ciò, è previsto che almeno il 50% del corpo docente degli ITS sia costituito da personale aziendale15.

Il quadro non sarebbe completo se non si adeguasse all’assetto descritto anche il corpo docente, fin dal percorso di studi previsto per entrare a farne parte. Infatti, il Piano prevede che gli insegnanti della nuova scuola siano anch’essi sottoposti a un costante trattamento formativo, selettivo e valutativo ispirato ai principi che nelle aziende private appartenenti ad altri settori operano da sempre16. Anche per i docenti la formazione permanente è, in via prioritaria, una formazione virtuale e alla virtualità, fra l’altro con una definitiva istituzionalizzazione della famigerata didattica a distanza17: a completamento e a garanzia di una definitiva irreggimentazione aziendalistica dei docenti, che manda in soffitta ogni residuo di libertà di insegnamento. Uno sguardo alla bozza della novella al decreto legislativo 59 del 13 aprile 2017, riguardante il reclutamento e la formazione permanente degli insegnanti, chiarisce il dettaglio18.

L’ente preposto a dirigere la formazione in servizio del corpo docente è la Scuola di Alta Formazione del sistema nazionale pubblico di istruzione (SAF). L’organigramma direttivo dell’ente è di provenienza dal mondo accademico e dalla burocrazia amministrativa, con l’aggiunta, per nomina ministeriale, di “professionalità esterne all’amministrazione con qualificata esperienza manageriale”19 e “personalità di alta qualificazione professionale”20. Tale organigramma deve inoltre comprendere i presidenti di INDIRE e INVALSI21, articolazioni del Sistema Nazionale di Valutazione22. È appena il caso di ricordare che gli organi direttivi di questi ultimi due enti integrano le suddette provenienze burocratico-accademiche quasi unicamente con professionalità dell’area manageriale e di quella psico-pedagogica23. Qualche singola poltrona in essi è attualmente occupata da ex Dirigenti Scolastici con gli anni di esperienza di insegnamento obbligatori per la partecipazione al concorso per dirigenti o pochi di più. Questa è, nella realtà dei fatti, la cosiddetta “Autonomia scolastica”: un’organizzazione che toglie al mondo della scuola qualunque possibilità di avere voce in capitolo, fosse anche soltanto consultivamente, nel governo della scuola stessa, assegnando ogni ruolo apicale al funzionariato aziendale e burocratico e ai suoi abituali consulenti accademici24.

E infatti, come si apprende dall’articolo 16-ter del documento citato25, il nuovo sistema di formazione in servizio per i docenti è strettamente legato all’avanzamento in carriera, alla progressione stipendiale e alla maturazione del punteggio valido per le graduatorie. L’insegnante che sceglie di accedere ai percorsi di formazione continua vede aumentare stipendio e punteggio più rapidamente di quelli dei colleghi. Ma ciò soltanto se, a giudizio degli organi preposti della SAF, i risultati dei suoi alunni in termini di rendimento scolastico dimostrano che con loro sono state adeguatamente applicate le metodologie trasmesse nei corsi di formazione in servizio. Ossia: se fai quello che dicono manager e pedagogisti della SAF, e se i tuoi alunni hanno voti alti, prendi più punti e più soldi26.

È evidente, a chiunque ragioni su base fattuale e non ideologica, che quanto fin qui descritto è una pietra tombale su qualunque idea di paidèia.

Riassumiamo. La scuola produce disoccupati. I posti vacanti nelle imprese sono molti meno dei disoccupati. Il PNRR interviene perché la scuola produca lavoratori adatti alle esigenze delle imprese, in modo che pochi studenti di oggi abbiano la speranza di essere lavoratori di domani in quanto rispondenti ai bisogni di chi li assume. La maggioranza di coloro che escono dalla scuola resta disoccupata a perenne ricatto per gli occupati. Le imprese sono soddisfatte e la scuola così riformata si dimostra competitiva proprio perché le imprese sono soddisfatte. E a vigilare su tutto ciò, un corpo docente che, quando non è direttamente personale aziendale, è strutturato a sua immagine e ne deve trasmettere il verbo per avanzare professionalmente27.

Resta però una domanda inevasa: perché un modello che propone come unici mantra il lifelong learning, le discipline STEM, l’ipertecnologizzazione e la conversione ossessiva e quasi fideistica al virtuale dovrebbe essere conforme agli interessi delle imprese private? Alle aziende non serve anche chi inventa nuove tecnologie, scopre nuove risorse grazie alla ricerca, scioglie nodi teorici per consentire salti di paradigma culturale? E tutto ciò, oltre che di un sapere tecnico piuttosto raffinato e tecnologicamente aggiornato, non ha sempre avuto bisogno anche di una cultura umanistica e scientifica senza la quale si riduce a un saper fare meccanico, e più o meno meccanicamente appreso, incapace di evolvere e di un vero adattamento a una realtà complessa? Qual è, dunque, l’origine di questa apparente contraddizione di un mondo aziendale tanto potente da plasmare l’intera società, che però sega il ramo sul quale sta seduto?

Per capire se davvero stiamo seduti su quel ramo, il quadro sin qui fornito è incompleto. Abbiamo indagato il rapporto scuola-impresa dal lato dell’impresa: ora tocca alla scuola.


3. Scuola di oggi e scuola di ieri

Il modello verso il quale ci stiamo muovendo, e nel quale siamo già in buona parte precipitati, non richiede a chi frequenta le scuole la profusione di un reale impegno per acquisire e interiorizzare capacità e conoscenze complesse di cui in partenza si è deficitari. A tale approccio vengono oggi imputati due effetti che sarebbero da evitare: l’affaticamento dell’allievo e la sua disaffezione allo studio e alla scuola. L’orientamento attuale propone, dunque, a docenti e discenti, di muoversi con atteggiamento flessibile fra le cosiddette “competenze non cognitive”, le quali sono intese sempre come sviluppo e articolazione di “talenti” già posseduti dallo studente. E questo malgrado ogni docente oggi in servizio possa testimoniare con serenità che gli studenti, anche quando si adotta con loro l’approccio caldeggiato da questa moderna e amorosa scuola delle competenze non cognitive, continuano a nutrire, come principale e più intenso dei sentimenti, il desiderio insopprimibile di fuggire da scuola appena possono: più o meno come ai tempi del castigo dietro la lavagna o in ginocchio sui ceci. Ciò per la banale ragione che adolescenti e bambini non hanno mai avversato la scuola perché “è spiacevole” o perché “è faticosa”, ma perché è imposta. Vi sono, è vero, insegnanti che restano sbalorditi quando, dopo avere fatto scegliere un’attività a un alunno in base ai suoi gusti personali, lo vedono attendere il suono della campana con la stessa trepidazione che avevano i suoi nonni allorché studiavano a memoria “Tanto gentile e tanto onesta pare…”, cercando di conservare i libri e infilare il giubbotto in anticipo. Con il loro sbalordimento, costoro dimostrano di possedere più attitudine a prendere per buone le favole che a decostruirne la finzione (cosa, quest’ultima, che sarebbe più o meno il mestiere di chi insegna). Ma tant’è: la fede in questo malinteso senso della didattica puerocentrica è incrollabile. Pardon! Resiliente.

In un simile quadro, anche la valutazione consiste soprattutto in una classificazione di ogni singolo alunno sulla base dei talenti riconosciutigli a monte; a tutto vantaggio, certo, delle aziende che lo dovranno scegliere sul mercato del capitale umano per destinarlo alle mansioni cui risulterà più idoneo. Ma purché si tratti di mansioni elementari, che non richiedano il bagaglio di un percorso di studi dal consistente impegno cognitivo. Il potenziamento delle discipline STEM e la promozione degli Istituti Tecnici Superiori non contraddicono tale evidenza: l’iperspecializzazione tecnicistica (a scanso di equivoci predisposta anche per le università28) non è approfondimento, ma il suo esatto opposto, come vedremo più avanti.

D’accordo – si ribatte – forse non è raggiungibile, per lo meno in una scuola dell’obbligo, l’obiettivo di rendere il contenuto dell’insegnamento più appetibile all’allievo di quanto lo sia la vita fuori da scuola, ma almeno lo si può rendere meno faticoso, meno proibitivo per chi non possieda in partenza strumenti culturali adatti ad affrontare un percorso scolastico impegnativo. Si presenta, quindi, la didattica delle competenze non cognitive e di quelle tecnico-pratiche elementari come un’innovazione necessaria alla democratizzazione della scuola: in questo modo “i nostri ragazzi” non si perderanno più lungo la strada e otterranno tutti l’agognato “pezzo di carta”. L’importante è che su quel foglio sia descritto correttamente, per ognuno di loro, “che cosa se ne fa di lui/lei” l’azienda più vicina.

Individualismo, autonomia scolastica e competizione

Abbiamo dunque riconosciuto un primo fondamento della scuola-azienda: una prospettiva che impone come unico soggetto di riferimento il singolo alunno. L’impresa deve poter valutare individualmente l’idoneità di ogni potenziale assunto. Si spiegano così l’avvento del Curriculum dello studente29 e la crescente insistenza di ministri e pedagogisti ministeriali sulle classi aperte, che spezzano l’identità della classe come gruppo30. È importante che non sfugga questo nesso strettissimo fra individualismo e aziendalizzazione, perché su di esso è basato un secondo fondamento dell’intero sistema, che ne costituisce la pietra angolare: l’autonomia scolastica31.

Come detto in apertura, l’idea alla base della moderna scuola pubblica era quella della collettività che educa sé stessa attraverso una specifica articolazione del proprio apparato istituzionale. Si trattava naturalmente di un orizzonte ideale, che mai nessuna scuola storicamente esistita ha raggiunto. Si potrebbe anche sostenere, con ottime ragioni, che in molti casi quell’orizzonte era tacitamente considerato lettera morta. E tuttavia era l’unico dichiaratamente in campo: operante o fittizio che fosse, era la cornice teorica entro la quale si doveva giustificare ogni proposta.

L’autonomia scolastica si fonda sul principio diametralmente opposto: una pluralità di istituti scolastici che si contendono l’utenza studentesca e la clientela rappresentata dalle famiglie che ne finanziano la formazione, in un gioco di concorrenza che ricalca quello fra le imprese private. E infatti è proprio a queste imprese che, in base al PNRR, tali istituti si dovranno associare nel perseguire le rispettive mission. Mission che ogni scuola dettaglia nel Piano Triennale dell’Offerta Formativa (PTOF)32, proposto all’esterno attraverso tre veicoli squisitamente pubblicitari.

Il primo veicolo è il sito web dell’istituto scolastico, tipicamente sempre più povero di contenuti informativi e sempre più carico di slogan e specchietti per le allodole, come “Galleria dei personaggi illustri che si sono diplomati da noi”. Il secondo è il cosiddetto open day: una giornata durante la quale l’istituto viene aperto a studenti dell’ordine o grado immediatamente precedente, mostrando loro una sorta di spot pubblicitario dal vivo della “attività quotidiana” che li attende se si iscrivono lì. Il terzo è un giro promozionale, ad opera di una task force di docenti e studenti dell’istituto, ancora una volta fra le scuole dell’ordine o grado precedente, per decantare la propria offerta. E naturalmente, il piatto forte di tale offerta è costituito in misura crescente da attività addirittura esterne allo stesso PTOF: gli onnipresenti “progetti”. Si tratta della vera sostanza del già illustrato concetto di lifelong learning per come viene inteso nel PNRR: corsi di lingue straniere à la carte (e à la page), stages artistici, pratiche sportive, ossia ogni attività che possa attrarre un bambino o un adolescente, con uno speciale titolo di merito se è declinata in forma “non cognitiva”.

Per tutti e tre gli strumenti pubblicitari il principio è lo stesso: chi propone l’offerta più appetibile vince, vedendo aumentare gli iscritti. Gli sconfitti deperiscono, fino a quando la loro popolazione studentesca diviene tanto esigua da obbligare all’accorpamento, ossia l’inglobamento da parte di uno degli istituti vincitori. Esattamente come accade fra le aziende con le guerre a colpi di O.P.A. e acquisizioni.

In tal modo, ogni studente, docente, membro del personale ATA o di quello amministrativo non interiorizza l’idea che ci siano istituti scolastici differenti perché l’istruzione della collettività ha bisogno di questo indirizzo e di quello e di quell’altro, bensì un punto di vista secondo cui il “mio” istituto, e non quell’altro, deve essere scelto perché “noi siamo meglio”. È lo spirito di corpo scolastico-aziendale. Ma uno spirito di corpo che si regge ancora e sempre sull’individualismo. È ormai frequente il caso dell’insegnante che in consiglio di classe non dice: “Comportiamoci nel modo X con l’alunno Y, perché così lo aiutiamo a capire”, bensì “Facciamo alla maniera Z, perché altrimenti le iscrizioni calano e io perdo il posto”. Ed è un timore oggettivamente fondato. La naturale reazione di un cliente insoddisfatto della merce acquistata è, infatti, rivolgersi a un altro venditore. Ed è ciò che ormai fanno abitualmente i clienti-genitori quando essi o i loro figli-utenti non si ritengono soddisfatti della “offerta formativa” sperimentata. I passaggi, anche più volte nel corso del medesimo anno, da un istituto a un altro di uguale o differente indirizzo, hanno conosciuto un aumento vertiginoso parallelamente al processo di aziendalizzazione della scuola33.

Una simile dinamica sarebbe stata ardua da innescare nel sistema scolastico non aziendalizzato, nel quale ogni indirizzo di studi consisteva in un lungo percorso di acquisizione di conoscenze non possedute in partenza. Tali conoscenze non erano stabilite arbitrariamente, né in base alle inclinazioni e difficoltà del singolo allievo o alle esigenze della singola azienda che lo avrebbe assunto. Costituivano il bagaglio culturale minimo che il contesto sociale esterno rendeva oggettivamente indispensabile per affrontare, con la necessaria consapevolezza, le problematiche generali dell’orientamento scelto34. Fermo restando che, quando l’indirizzo in questione era tecnico-pratico, si dava una certa importanza anche alle competenze operative del settore. Banalizzando: chi usciva da un liceo classico non doveva “saper fare filosofia”, ma era in grado di capire il linguaggio di un saggio filosofico; chi aveva un diploma di geometra sapeva progettare un edificio che non crollasse. La scuola-azienda, sebbene proclami la “didattica per competenze”, non raggiunge obiettivi del genere, per l’elementare ragione che non se li prefigge.

Conoscenze e competenze

Sull’articolazione del percorso formativo in conoscenze, capacità, abilità e competenze, con la centralità accordata a queste ultime, è fiorita negli ultimi anni e decenni una vasta letteratura e si è acceso un variegato dibattito35. Si tratta, in buona sostanza, di una rissa mediatica molto spettacolarizzata sui significati astratti delle suddette quattro parole, che prescinde dalle pratiche in cui esse si materializzano nella realtà quotidiana della scuola-azienda. Dopo averci lungamente girato attorno, siamo quindi giunti ad affrontare il tema delle competenze, che come anticipato sono definite di due tipi: cognitive e non cognitive. Ciò che qui sosteniamo è riassumibile in tre punti:

  • la centralità delle competenze (cognitive e non) rispetto alle conoscenze ha impoverito la didattica;
  • l’insegnamento delle competenze cognitive è oggettivamente impossibile nella scuola-azienda;
  • la trasformazione delle competenze non cognitive in materie scolastiche è uno strumento in favore delle imprese per rendere gestibile la manodopera presente e futura.

Per argomentare tali asserzioni è però necessario non solo mostrare come funzionino i due tipi di competenze nella pratica didattica odierna, fuori dai panegirici dei pedagogisti iperuranici, ma anche seguire un procedimento analogo con altri fiori all’occhiello della didattica del terzo millennio e delle sue presunte magnifiche sorti e progressive. Essi sono:

  • l’interdisciplinarità,
  • l’inclusione,
  • la meritocrazia,
  • la didattica “non trasmissiva”,
  • l’alternanza scuola-lavoro,
  • l’approccio “imparare a imparare”
  • le valutazioni oggettive.

È dunque arrivato il momento di scendere anche noi dagli ovattati salotti delle torri d’avorio in cui si dibatte di scuola, e varcare la soglia di un’aula vera.

Le competenze non cognitive

Cominciamo col riportare l’elenco delle competenze non cognitive, come definito dall’OMS nel 199336 e il cui insegnamento curricolare nella scuola pubblica italiana è recentemente divenuto legge37:

  1. Capacità di leggere dentro sé stessi (Autocoscienza);
  2. Capacità di riconoscere le proprie emozioni e quelle degli altri (Gestione delle emozioni);
  3. Capacità di governare le tensioni (Gestione dello stress);
  4. Capacità di analizzare e valutare le situazioni (Senso critico);
  5. Capacità di prendere decisioni (Decision making);
  6. Capacità di risolvere problemi (Problem solving);
  7. Capacità di affrontare in modo flessibile ogni genere di situazione (Creatività);
  8. Capacità di esprimersi (Comunicazione efficace);
  9. Capacità di comprendere gli altri (Empatia);
  10. Capacità di interagire e relazionarsi con gli altri in modo positivo (Skill per le relazioni interpersonali).

Ricordiamo che qui non si mette in dubbio l’importanza, a volte persino decisiva, che tali competenze possono rivestire nei più disparati ambiti, ivi compresi molti di quelli tradizionalmente oggetto dell’insegnamento scolastico. La nostra critica, radicale e senza riserve, è rivolta a una didattica in cui le competenze elencate sono esse stesse direttamente insegnate come materie scolastiche. L’argomentazione che proponiamo è duplice.

In primo luogo, occorre notare che tutto l’impianto delle politiche scolastiche in auge almeno dai tempi della Riforma Berlinguer38, fino al culmine della Missione 4 del PNRR39, assume come punto di partenza la presunta incapacità del tradizionale corpo docente della scuola pubblica italiana di insegnare quanto andrebbe insegnato. Ciò implica che chi è docente oggi non sia in grado di insegnare nemmeno le competenze su elencate. Dunque, dove mai dovrebbe acquisire tale capacità? Come abbiamo dimostrato basandoci strettamente sulla lettera del PNRR e dei documenti cui esso fa riferimento, non vi è sapere ritenuto necessario a un docente dall’attuale politica scolastica italiana che non sia connesso, direttamente o indirettamente, con il mondo aziendale. Quindi anche l’insegnamento delle competenze non cognitive dovrà essere appreso nei corsi della SAF e monitorato e valutato da INVALSI e INDIRE: ossia da enti diretti da personale e in base a logiche di quel mondo40. E infatti quelle dieci soft skills coincidono con le prerogative richieste ai dipendenti di un’impresa per gli interessi di chi la dirige.

Il secondo argomento è più intrinseco e si presta a un’illustrazione per mezzo di esempi. Prendiamo la competenza 8: Capacità di esprimersi (Comunicazione efficace). Se ci chiedessero di fare nomi di personaggi attualmente noti per il possesso di questa dote in massimo grado, uno fra essi sarebbe certamente quello dello storico Alessandro Barbero. Lo abbiamo selezionato in base al medesimo criterio adoperato dalle aziende televisive che lo ingaggiano, ossia l’audience: se occupa da anni i nostri schermi è perché, quando parla, la gente non cambia canale e le sue apparizioni su YouTube abbondano di visualizzazioni, like e commenti entusiastici. Se ne deduce che “sa esprimersi” e che la sua è una “comunicazione efficace”. Ebbene, invano si cercherebbe, fra le sue esibizioni più “cliccate”, una in cui non sfoggi un bagaglio di conoscenze sul tema trattato abissalmente superiore alla media e notevole anche rispetto a quello di molti professionisti del settore. Naturalmente si può conoscere la storia come Barbero ed essere dei pessimi comunicatori: la conoscenza non è condizione sufficiente a comunicare. Ma chi ritiene che non sia nemmeno condizione necessaria sorvola sul fatto ineludibile che non si può “comunicare comunicazione”: quando comunichiamo, comunichiamo qualcosa. E chi non conosce o conosce poco ciò che comunica, lo comunica male o comunica altro. Nasce da qui la formula scolastica dell’interrogazione. Interrogare uno studente significa proprio verificare se sia in grado di spiegare l’argomento studiato come se si rivolgesse a chi non ne sa niente, ma nello stesso tempo dimostrando di avere acquisito il linguaggio specifico della disciplina. Tant’è vero che i due tradizionali modi di “andare bene senza brillare” all’interrogazione erano ripetere la lezione “uguale al libro” ed esporla “con parole tue”; mentre “quelli bravi” raggiungevano la sintesi di un’elaborazione personale nell’impianto, esaustiva nei contenuti e corretta nel linguaggio impiegato. Ma guarda caso, come si vedrà più oltre41, l’interrogazione è esecrata dai falsi democratizzatori della didattica e sostenitori della scuola-azienda.

Un secondo tratto caratteristico del personaggio menzionato è che non ha costruito la propria efficacia semiotica sull’ignoranza della lingua e della grammatica, che mostra di padroneggiare saldamente. Ciò perché chi non domina le strutture del linguaggio che usa può forse trasmettere l’immediatezza di elementari stati d’animo, ma non riuscirà mai a comunicare delle realtà concettualmente complesse. E queste, come tutto ciò che non si comprende, assumeranno nella sua coscienza il ruolo di insondabili potenze divine o di un immutabile destino: al pari del linguaggio che crede di usare, saranno esse a usare lui.

Qui non si sostiene, come è ovvio, che la funzione della scuola sia fare di ogni studente un Alessandro Barbero; ma deve essere detto con nettezza, e con estrema preoccupazione, che gli studenti e le studentesse di oggi incarnano esattamente quella figura di individuo che non riesce a comunicare qualcosa di più delle rudimentali emozioni del momento. Le nostre scuole sono sempre più affollate di alunni che scrivono così: «Lui, si alzò e và in cucina ma mentre era entrato prende la scossa ma non lo sapeva credeva che l’aveva staccata e invece no, però pensò che non fa niente»; allievi di scuole secondarie che non riescono a svolgere correttamente elementari procedimenti matematici perché non padroneggiano le quattro operazioni; ragazzi e ragazze che non distinguono tra un passato di decenni e uno di secoli o che non sanno leggere l’orologio a lancette; intere classi del liceo scientifico che, dopo due anni di lezioni di fisica, hanno ancora bisogno degli esempi con le palline per ragionare sulle leggi del moto; adolescenti che qualunque affermazione facciano, anche su argomenti non scolastici, se si chiede loro di motivarla, nella maggior parte dei casi rispondono: “Non lo so spiegare”.

Quello sommariamente richiamato è il quadro generale, non lo stato di alunni che se ne discostano per carenze soggettive, trascorsi scolastici problematici o insufficienza di stimoli culturali provenienti dall’ambiente familiare. E si tratta di un processo che ha conosciuto un costante incremento negli ultimi trentacinque anni, caratterizzati dall’introduzione della sussidiarietà e dell’autonomia scolastica con la legge 59 del 15 marzo 199742, dalle riforme Mattarella43, Ruberti44, Berlinguer45, Moratti46 e Gelmini47, dall’avvento della “Buona scuola” renziana e dai successivi sviluppi fino a oggi. Di tali sviluppi fa parte anche la comparsa sulla scena di nuove generazioni di docenti, formatisi proprio nel clima e nel contesto ideologico, normativo e scolastico di questi trentacinque anni. Deve quindi essere chiaro che quanto descritto non può essere in alcun modo un effetto della scuola precedente questa ondata di “nuovo che avanza”. Il nuovo ha ormai come minimo tre decenni, e la scuola che abbiamo sotto gli occhi è la sua figlia legittima. La scuola-azienda non può essere il rimedio del male che ha contribuito a generare. Erode proprio quei fondamenti del sapere che consentono a chi li possiede di relazionarsi alla complessità, cercando di capirla, interagirvi ed eventualmente modificarla, e non subendola come i dettami del fato. E l’ultimo mezzo introdotto allo scopo di realizzare questo disarmo delle coscienze è proprio l’insegnamento curricolare delle competenze non cognitive.

Per chiarirlo, passiamo alla competenza 6: Capacità di risolvere problemi (Problem solving). Immaginiamo una classe in cui un docente, seguendo gli orientamenti pedagogici che raccomandano approcci come la peer education48e il cooperative learning49, abbia proposto un lavoro di gruppo. Supponiamo che l’attività consista nello scrivere collettivamente la recensione di un film visto a lezione, quindi una verifica pratica che dovrebbe cominciare a fornire alcune indicazioni sulle competenze in via di acquisizione. Come potrà partecipare al lavoro del gruppo lo studente che si è assentato alle lezioni sulla recensione (magari anch’esse dialogate e interattive), non ha studiato e non ha svolto gli esercizi sull’argomento? Certamente potrà dare un contributo per “risolvere problemi” di svariati generi, come il celebre Wolf di Pulp fiction: se il gruppo non sa dove riunirsi, potrà proporre un luogo che conosce; se qualcuno non ricorda un dettaglio del film, potrà caricarlo sul suo dispositivo portatile; se due membri del gruppo litigano, potrà escogitare il compromesso che li metta d’accordo. Ma non riuscirà mai a “risolvere problemi” che riguardino la stesura di una recensione, perché non sa che cosa sia una recensione.

Ora, per quanto il lifelong learning possa estendere il tempo scuola, non potrà mai farlo durare oltre i limiti della giornata. Con ciò si intenda quella manciata di ore che restano dopo averne dedicata una parte a pasti, riposo, spostamenti. Sicché l’introduzione dell’insegnamento delle competenze non cognitive deve necessariamente sottrarre tempo all’insegnamento di tutto il resto, a cominciare dai contenuti delle singole discipline. Tempo che, peraltro, viene già sottratto dalla realizzazione dei “progetti” cui si è accennato sopra, nonché da ulteriori pratiche delle quali si parlerà più avanti. Da tutto ciò deriva che la scuola-azienda si propone di sfornare eserciti di piccoli Wolf in grado di “risolvere problemi” generici, i quali, per imparare a farlo, dovranno aumentare la propria ignoranza delle specifiche problematiche poste dallo studio teorico e pratico della fisica, della geometria, della chimica, della letteratura, della lingua italiana, di quelle straniere, della storia, delle scienze motorie e così via: ossia, di come sono fatti l’universo in cui viviamo, il nostro corpo, la nostra mente e le culture della specie a cui apparteniamo. E a tale scopo il personale docente dovrà essere sempre più capace di condurre il suddetto insegnamento generico e sempre meno in grado non solo di fare acquisire alla classe la conoscenza di che cosa sia una recensione o un saggio breve, ma anche la competenza di scrivere un testo o articolare un discorso. Docenti che non sanno spiegare le proprietà fisiche e geometriche dei corpi e alunni che non se ne sanno servire per bloccare una porta o per aggiustare una sedia. Docenti che non illustrano la storia e la natura dei concetti di eresia e ortodossia, e adolescenti e bambini che non imparano a riconoscere e rifiutare l’intolleranza nei propri comportamenti. Dunque un apprendimento indistinto favorito da un insegnamento dequalificato, che per dare spazio alle competenze non cognitive ne sottrae all’insegnamento delle conoscenze disciplinari, ma anche delle stesse “competenze cognitive”, altrettanto legate alle discipline medesime. A ciò si aggiunga il tempo, sempre più esorbitante, che il docente è tenuto a sottrarre alla didattica per dedicarlo all’inevitabile ipertrofia burocratica che la concezione aziendale della didattica comporta: impostare moduli, predisporre griglie, frequentare seminari per acquisire competenze nelle quali un insegnante non potrà mai sostituire i professionisti del settore (due esempi per tutti: la sicurezza e il primo soccorso). Un simile insegnamento non tarderà a essere ridimensionato retributivamente. E il singolo docente, già oggi titolare di una professione sottopagata e privata di ogni residuo prestigio sociale, sarà sempre più facile da sostituire, ricattare, gestire a piacimento dell’azienda.

L’interdisciplinarità 50

È importante sottolineare che tale genericità e dequalificazione della relazione didattica è prevista nero su bianco nelle indicazioni ministeriali, soltanto che lì ha un altro nome: viene chiamata “interdisciplinarità” o “trasversalità”. Tanto è vero che le competenze non cognitive, oltre che soft skills o life skills, sono denominate anche “competenze metacognitive” o “competenze trasversali”. Il punto è che l’interdisciplinarità/trasversalità nella scuola-azienda è una bufala.

Il sostantivo “Interdisciplinarità” viene da “Interdisciplinare”51, aggettivo composto di derivazione latina, a sua volta derivato dal sostantivo disciplina, -ae. Questo ha fra i suoi significati “insegnamento”, “apprendimento”, “scienza”, “regolamento”, “precetto morale”, “scuola di pensiero”52. Il prefisso inter- è una preposizione che in questo caso indica relazione, scambio, reciprocità53. Analogo il discorso per “trasversale”54: trans- vale “al di là”, “oltre”55, mentre il verbo verto ha qui il significato letterale di “volgersi”, dirigersi”, “andare” e quello figurato di “consistere in”, “vertere su”56.

Un’attività interdisciplinare/trasversale è quindi un percorso che attraversa le singole discipline, come stanze di un solo edificio, penetrandole tutte e cercando nel nocciolo più intimo di ognuna ciò che la connette alle altre. Il concetto di unità del sapere acquista così il senso di un movimento incessante, nel quale il superamento dei confini ha come presupposto l’approfondimento delle specificità.

Come abbiamo visto, la presunta interdisciplinarità del modello aziendale lifelong learning implica, invece, che il tempo scuola sia tendenzialmente indistinto dalle attività parascolastiche ed extrascolastiche legate al tempo libero57. E ciò si ottiene sottraendo porzioni via via crescenti di tempo scuola agli insegnamenti disciplinari, per destinarle a svariati progetti extracurricolari e alla nuova curricolarità delle competenze non cognitive. Ma gli uni e le altre non penetrano né attraversano le discipline. Non sono specificamente legati a questa o quella, non perché riguardino il cuore del sapere che le accomuna tutte, bensì perché il sapere non li riguarda affatto: il loro scopo sta tutto sul piano emotivo-relazionale, che può essere considerato più o meno importante di quello cognitivo, ma non certo intercambiabile con esso. L’insegnamento proposto dalla scuola-azienda non è interdisciplinare, è adisciplinare: l’edificio viene sorvolato gettandovi uno sguardo superficiale dall’alto, senza dare la minima idea di come sia fatta anche una sola delle sue stanze.

Un esempio plastico di ciò è il nuovo insegnamento “trasversale” dell’Educazione Civica58 nella scuola secondaria di secondo grado. Durante l’Anno Scolastico, 33 ore curricolari vengono sottratte all’insegnamento delle varie discipline per essere dedicate a “progetti interdisciplinari” afferenti ai seguenti temi raggruppati in tre aree concettuali (cittadinanza e Costituzione, sostenibilità, cittadinanza digitale):

  • la Costituzione
  • la discriminazione di genere
  • il diritto di famiglia
  • l’Agenda 203059
  • la lotta al bullismo
  • il diritto del lavoro
  • la tutela dei diritti umani
  • l’educazione alla legalità
  • la sostenibilità ambientale
  • la lotta al razzismo
  • il contrasto alle mafie
  • i nuovi modelli di sviluppo
  • la difesa e la valorizzazione del patrimonio culturale
  • l’uso consapevole dei social e delle fonti di informazione sul Web
  • le forme di cyberbullismo
  • l’educazione alla salute
  • la promozione di corretti stili di vita
  • l’educazione stradale e la formazione di base in materia di protezione civile

Come si vede, è una mescola variegata di temi ognuno dei quali, per venire trattato con un minimo di consapevolezza dal punto di vista di una qualunque disciplina, dovrebbe essere affrontato per l’intero anno da una classe che padroneggi con sicurezza ben più delle basi della disciplina stessa. Invece ogni docente è chiamato a dedicarvi una manciata di ore con alunni che, come si è detto, in larga maggioranza hanno serie difficoltà anche soltanto a esprimersi in modo chiaro. Si consideri, inoltre, che i progetti da presentare non sono obbligatoriamente vincolati ai percorsi che la classe sta seguendo nelle diverse materie e non vengono organizzati collegialmente, ma separatamente dai singoli docenti. Difficile trovare dell’interdisciplinarità in tutto ciò.

Inclusione e meritocrazia

Con la decostruzione del falso concetto di interdisciplinarità siamo entrati decisamente nell’analisi di quelle che l’ideologia pedagogica dominante considera competenze cognitive. Ribadiamo che il dibattito fra sostenitori e critici del ruolo oggi ricoperto da queste ultime nel sistema scolastico si articola intorno al loro statuto teorico, mentre qui si sostiene (e si è già iniziato a dimostrare) che, nella scuola-azienda concretamente esistente, chi vuole lavorare davvero sulle competenze cognitive debba contravvenire alle indicazioni della scuola stessa. Resta comunque fondamentale tenere presente che l’attuale idea di competenza cognitiva e la sua centralità nel sistema educativo nascono da una politica (dell’Unione Europea, per quanto ci riguarda in modo più diretto) che dichiara esplicitamente di fare della scuola uno strumento al servizio del mercato60.

Abbiamo anche visto che la scuola-azienda rappresenta il proprio avvento come una democratizzazione dei processi educativi. Il principio-chiave di questa pseudo-democraticità è l’inclusione, definita come segue: «Strutturare i contesti educativi in modo tale che siano adeguati alla partecipazione di tutti, ciascuno con le proprie modalità»61. Viene ricostruito un presunto percorso storico passato attraverso cinque successive fasi: Esclusione, Separazione, Inserimento, Integrazione, Inclusione. L’ultima, ossia il periodo che viviamo attualmente, viene ovviamente indicato come punto di arrivo che spazza via le residue rigidità castali della “vecchia scuola”, rendendo finalmente possibile un’educazione democratica e delle pari opportunità.

Ora, che tra l’idea di includere e quella di escludere sia la prima a essere intrinsecamente democratica non c’è dubbio. Tuttavia, ci troviamo di fronte al solito gioco linguistico che fa velo alla sostanza dei fatti.

Chi pretende di illustrare le vicissitudini storiche dell’istruzione dovrebbe infatti avere studiato che il proposito di rendere egualitaria la circolazione del sapere in ambito didattico abbassandone il livello è tradizionalmente la politica delle élites oligarchiche. Il principio è semplice: le classi popolari devono poter accedere senza ostacoli a un sapere rudimentale, che non le metta in grado di sviluppare gli strumenti critici grazie ai quali comprendere la necessità di un “assalto al cielo” collettivo; e il sapere “alto” resta esclusivo appannaggio di pochi privilegiati (le élites, appunto) e dei pochissimi fortunati che, tra gli appartenenti agli strati inferiori, riescono a emergere “per meriti”. Come si vede, non è che la riproposizione in altra forma di quell’idea delle competenze come “talenti” posseduti a monte dall’allievo, di cui abbiamo parlato. La scuola-azienda ha sempre un posto per te, perché riconosce le tue specifiche capacità, le cataloga a dovere e ti aiuta a metterle a frutto, purché non ti salti in testa di andare oltre. Quali che siano le tue difficoltà, non avrai bisogno di impegnarti per superarle, sarà “il contesto educativo” che si adeguerà a loro. Quali che siano le tue inclinazioni, non dovrai che chiedere e l’insegnamento vi si conformerà. Così la scuola diventa qualcosa a metà tra un ipermercato di nozioni superficiali on demand e un allucinato paese dei balocchi: il mondo come volontà e ordinazione su misura.

Se i tuoi talenti si riveleranno vincenti, sbaraglierai la concorrenza. Se saranno talmente adatti al mercato da superare il potenziale dell’offerta formativa, potrai addirittura essere fra i pochi eletti a cui si apriranno le porte degli ambiti “centri d’eccellenza”. La tua mentalità verrà addestrata ad assumere tale orientamento improntato alla competizione, attraverso una costante integrazione del curriculum scolastico con progetti ad hoc: alcuni occasionali, altri ormai istituzionalizzati al punto da essere stabilmente previsti nei libri di testo, con appositi esercizi di preparazione al grande evento. Due esempi valgano come generalmente rappresentativi.

Il primo è costituito dalle onnipervasive “Olimpiadi” (di Italiano, di Matematica, di Fisica etc.), che abituano l’allievo a spostare il movente dello studio dall’obiettivo di padroneggiare delle conoscenze a quello di rivelarsi “più bravo degli altri”.

Il secondo esempio va illustrato un po’ più diffusamente. È il cosiddetto Debate, che scimmiotta la forma esteriore della disputatio praticata nelle università medievali, ma con tre sostanziali modifiche. Innanzitutto, quello che dovrebbe essere un confronto dialettico su tematiche complesse, fra individui che le dominano e che hanno maturato differenti opinioni su di esse, viene proposto in un contesto di scuola secondaria fra alunni adolescenti, che sempre più spesso hanno difficoltà anche soltanto ad articolare un discorso, a riassumere il resoconto di un’esperienza o semplicemente a non coniugare al presente un enunciato da riferire al passato. In secondo luogo, si conferisce all’attività una veste semiludica che la avvicina a un format televisivo da gioco a squadre. Infine, la struttura impone rigidamente che un tema venga calato dall’alto e che su di esso si affrontino due squadre con il compito di produrre artificiosamente due sole posizioni: una a favore e l’altra contro. Come si vede, un esercizio di pura competizione, diametralmente opposto alla stimolazione del senso critico. Uno schema che seleziona a monte i temi proponibili e il modo di proporli, scongiurando la possibile nascita di un vero dibattito fra punti di vista molteplici e dialetticamente interrelati.

E se nessun docente ti seleziona mai per una “Olimpiade”? Se quando hai partecipato al debate ti è sembrato di avere “fatto perdere” la tua squadra e la cosa ti ha demoralizzato? Se le griglie aziendali predisposte da INVALSI e INDIRE, e spacciate per strumenti oggettivi di valutazione della tua persona, producono un “Curriculum dello studente” che sentenzia una tua inadeguatezza a occupare finanche l’infimo gradino della scala aziendale? Niente paura: tutto verrà diagnosticato e certificato come “disabilità”. In tal modo, la tua condizione sarà definita e incasellata. Dopo di che, con il solito spostamento dal piano fattuale a quello linguistico, ci si appellerà al principio dell’inclusione, in base al quale l’individuo “disabile” non è che individuo “con abilità diversa”. E allora i docenti cominceranno a subire pressioni perché gli argomenti affrontati e le verifiche proposte (come minimo a te, ma tendenzialmente all’intera classe) tengano conto di quella tua “differente abilità”, i tuoi voti saliranno lo stesso e tu verrai promosso. Perché sei nato così e così resterai: nulla si trasforma. Non servirebbe impegnarti per superare limiti e difficoltà, alzare la testa e guardarti intorno per affrontare gli ostacoli insieme ai tuoi simili come parte di una collettività. Esistono solo individui isolati e immutabili, e vanno solo catalogati. A quel punto è scontato sottoporre l’intera classe unicamente a prove che tutti possano sempre superare con le capacità già possedute62.

Talvolta (sempre meno spesso) è invece l’insegnante che considera problemi da affrontare le suddette difficoltà di base degli alunni, crescenti e dilaganti, e le segnala con valutazioni negative. In questi casi il responso è inappellabile: se gli alunni ottengono scarsi risultati, è il docente che non sa fare il suo lavoro, e con quelle valutazioni negative non fa che colpire l’autostima degli allievi, i quali sentono giudicata la propria persona anziché valutato un esercizio di grammatica inglese o una relazione di scienze naturali. Non una parola sul fatto che è esattamente l’approccio “olistico” delle competenze non cognitive, delle griglie onnicomprensive e del “Curriculum dello studente” ad avere la singolare pretesa di restituire, incolonnando numeri e frasi fatte, il quadro completo di un individuo. Nella didattica che noi auspichiamo, più umilmente, se provo ad aiutarti a capire che cosa sia un’equazione di secondo grado, e tu sbagli l’esercizio, il voto che esprimerò dirà semplicemente che quell’esercizio è sbagliato, la correzione dei singoli passaggi indicherà dove stiano gli errori e la valutazione associata suggerirà come correggerli.

Corre per l’ennesima volta l’obbligo di alcune precisazioni. Naturalmente le difficoltà dovute anche a cause di ordine clinico esistono ed è fondamentale diagnosticarle. Naturalmente trasformare in gioco l’apprendimento e variarne le forme sono pratiche auspicabili (e da molti già messe in atto nella deprecata “vecchia scuola”). Naturalmente la competizione può essere parte integrante di tali giochi didattici. Naturalmente molti docenti non solo hanno scarsa o nessuna attenzione alle specificità degli alunni e alle loro differenti sensibilità, ma quando si tratterebbe di riconoscere l’errore e porvi rimedio, ne scaricano la responsabilità sugli alunni stessi. Ma giustificare, con l’esistenza di tutto ciò, l’idea di inclusione descritta in questo paragrafo equivale a fare la figura di un adolescente che si sente padrone delle tecniche sofistiche dopo avere partecipato al suo primo debate.

Imparare a imparare”, didattica non trasmissiva, multimedialità, PCTO, griglie e test

Se dalla necessaria genericità delle formule pedagogiche, quali “inclusione” e “interdisciplinarità”, ci caliamo nella specificità delle metodologie didattiche intimate dalla scuola-azienda, incontriamo una nebulosa di principi teorici, tutti con un tratto comune: l’idea di un apprendimento che non si strutturi attorno a un qualcosa, ma a un come. La formula che sintetizza tale approccio è “Imparare a imparare”.

Si è ormai capito che “il re è nudo”, quindi non stupirà il grado di pochezza concettuale che ci toccherà smascherare nella seguente argomentazione.

Fra le cose che dovrebbero essere note a chi si attribuisce il compito di riformare l’intero sistema scolastico di un paese, c’è il fatto elementare che la mente umana è in grado di concepire soltanto forme di sostanze e sostanze dotate di forma63. Ci spieghiamo con qualche esempio.

In una lezione di matematica possiamo operare con l’ente geometrico astratto denominato “triangolo”, in un trattato di filosofia teoretica possiamo assumere come categoria concettuale “la triangolarità”. Ma se proviamo a chiudere gli occhi e immaginare, tutto ciò che riusciremo a visualizzare sarà un concreto, specifico oggetto triangolare. Possiamo dire “azzurro”, ma quando lo pensiamo ha la tonalità, la consistenza, la densità di qualcosa di colore azzurro. E all’inverso, non posso concepire una porta, un filo d’erba, un’automobile, un viso senza che nel mio pensiero essi abbiano forme, colori, dimensioni e così via. Non serve farla lunga per riconoscere che con i sensi differenti dalla vista procediamo esattamente allo stesso modo. Né la situazione muta della benché minima sfumatura se dalle qualità fisiche passiamo alle emozioni o ai concetti astratti: dico “intelligenza” e so visualizzarla solo come soggetti o comportamenti intelligenti; dico “amore” e non sto facendo altro che immaginare persone innamorate. Identico discorso – ed è quello che ci interessa – per le azioni: devo fare qualcosa per apprendere come farlo, e ancor più per scegliere in che modo apprenderlo.

Potrà sembrare un approccio esageratamente caricaturale, ma, se queste poche righe affermano il vero (e sfidiamo chiunque a confutarle), allora “Imparare a imparare” non è diverso da “comunicare la comunicazione”: una frase pomposa e vuota che non significa nulla.

Decliniamo il modello teorico in un ipotetico contesto didattico: ad esempio, l’insegnamento della storia. Una competenza metodologica da acquisire, un imprescindibile come trasversale a tutti i che cosa, sarebbe l’analisi delle fonti, argomento accennato anche nei primi capitoli dei testi scolastici. Come si acquisisce?

La verità è che non si acquisisce, non a scuola, non a quell’età. Analizzare una fonte è qualcosa che ragionevolmente sa fare uno storico, non una persona che frequenta la scuola dell’obbligo. La nostra non è una provocazione: ci sono discipline per le quali l’idea stessa di competenza scolastica è un nonsenso. Un bambino di otto anni che ha imparato a risolvere addizioni e sottrazioni ed è in grado di comprarsi il gelato da solo facendosi dare il resto, possiede una rudimentale “competenza matematica”. Ma un ragazzino di quindici anni non sviluppa “competenze storiche”: semplicemente accumula informazioni (via via sempre meno nozionistiche) le quali, se proseguirà in quel ramo degli studi, costituiranno la base di future competenze. Per il momento, nulla di immediatamente spendibile: questa è una delle ragioni per cui la storia e altre discipline umanistiche (ma anche scientifiche, in misura ben maggiore di quanto si creda) sono sotto attacco nella scuola-azienda. Tuttavia fingiamo: chiamiamo sviluppo di una competenza ciò che l’adolescente medio può riuscire a combinare con un passo di Eginardo o con (l’immagine stampata sul libro di) un corredo funerario etrusco. Come, dunque, si eserciterà per acquisire tale competenza? Non si possono analizzare se non fonti concrete (altrimenti saremmo a un “analizzare l’analisi”… e si torna daccapo). Poniamo che la classe sia una prima di un istituto secondario di secondo grado. Abbiamo come fonte un’iscrizione egizia che riporta informazioni sulla battaglia di Qadesh. Potrà il nostro quattordicenne fare pratica di analisi delle fonti senza sapere preliminarmente chi siano gli Egizi? No, non potrà. Dunque partire da una specifica fonte non basta: è necessario anche conoscerne il contesto. E a quel punto, come si procede all’analisi? Cominciando a leggere il contenuto della fonte e cercando di capire che cosa dica su quello specifico episodio storico. Separata dalla sostanza, la forma evapora.

La tecnica bassamente illusionistica di suggerire sul piano delle parole una salvifica rivoluzione che, nei fatti, si rivela polvere esalata dalle macerie di una scuola rasa al suolo, trova la sintesi nel concetto di “formazione” contrapposto a quello di “istruzione”. I due vocaboli, a cui si aggiunge anche “educazione”, vengono spesso usati come sinonimi, ma presentano notevoli differenze nell’etimologia e nelle accezioni possibili. Queste ultime sono però talmente variegate e ricche di sovrapposizioni e interconnessioni fra tutti e tre i vocaboli da rendere ogni selezione assai arbitraria, e quindi rivelatrice dell’intento ideologico di chi la opera64.

I sostenitori della scuola-azienda propongono la nota contrapposizione secondo cui l’istruzione sarebbe la pretesa di imporre e trasmettere unilateralmente all’allievo delle nozioni, mentre la formazione avrebbe a che fare con l’autonoma e libera “cura olistica” della persona rispettando le sue naturali inclinazioni. Come si tradurrebbe tutto ciò nella realtà delle nostre scuole?

Veicolo della didattica trasmissiva implicata dall’istruzione sarebbe la metodologia della lezione frontale: il Professore o il Maestro, venerando e terribile, sale in cattedra (da molto nelle aule scolastiche non c’è più la pedana, quindi non si “sale” da nessuna parte, ma pazienza…), legge o ripete con voce atona o imperiosa la lezione a degli alunni immobili e muti, suggella il tutto con il fatidico “Studiate da pagina x a pagina y!”, scende dalla cattedra (vedi sopra) e se ne va. A completamento della tortura, la famigerata interrogazione: sempre da quell’inesistente “alto” della cattedra, l’aguzzino “chiama alla lavagna” qualche malcapitato e pone domande del tipo “Qual è la radice quadrata di 529?” o “In che anno è morto Luigi XIV?” o “A quale temperatura fonde il rame?”. Se sai rispondere prendi un buon voto, altrimenti “si va tra la perduta gente”.

Assodato che i fans della scuola-azienda hanno visto Amarcord, vediamo che succede davvero.

In primo luogo, la “metodologia della lezione frontale” non esiste: la lezione frontale non è un metodo, ma uno strumento che appartiene a diversi metodi. In alcuni è centrale, in altri marginale, in tutti convive con altri strumenti. Parlare di “metodologia della lezione frontale” è come definire la dieta mediterranea “Cucina degli spaghetti”: contando su un’interpretazione letterale dell’etichetta, sarebbe gioco facile contrapporle una dieta più sana e più varia.

Tuttavia è vero che alcuni metodi che fanno uso della lezione frontale, pur andando al di là di essa, restano comunque fondamentalmente trasmissivi. Quali sono questi metodi? Dolenti di rompere il giocattolo, ma i più trasmissivi in assoluto sono i metodi impiegati nei seminari di formazione aziendale. È lì che ogni partecipante sta sotto il costante ricatto di licenziamento se non applica alla lettera il verbo che riceve unilateralmente. È da quell’ambiente, non certo da quello scolastico, che provengono tecniche di indottrinamento rozzamente meccanicistiche come quelle utilizzate dai motivatori. E la formazione che si sta imponendo alla scuola è esattamente quella di impronta aziendale. Viceversa, nella scuola attuale la trasmissività assoluta è impossibile.

Mettiamo il caso che a lezione di scienze l’insegnante, con la ferma intenzione di non muoversi dalla cattedra e di impartire una pura nozione con la massima rigidità di cui è capace, dica qualcosa del genere: «I tempi di raffreddamento e di solidificazione dell’ossidiana sono rapidi, perciò non si forma una struttura cristallina e parliamo di vetro vulcanico».

Forse gli aziendalisti scolastici hanno in mente una dimensione parallela in cui a questo punto gli alunni registrano o non registrano il dato e si passa all’affermazione successiva. Ma chi insegna nel mondo reale sa che il seguito è più o meno questo:

“Nooo! Dài, prof! Ma quindi l’ossidiana è di vetro???”

“Ma se è una pietra!”

“Cos’è l’ossidiana?”

“Com’è che si chiama?”

“Posso mettere il telefono a caricare?”

“Le prese sono tutte occupate…”

“Ce l’aveva mio zio sul mobile del salotto… è tipo scura…”

“Ragazzi, ora la vediamo…”

“Ma se è vetro perché non è trasparente?”

“Posso andare in bagno?”

“Sì, vai… no, aspetta, sono già usciti in due da dieci minuti: quando rientrano”.

“Ma quale zio, quello che conosco io?”

“State zitti, non capisco niente… prof, non mi ricordo, com’è che faceva la lava a diventare vetro?”

“Oh, ti offri tu in inglese?”

“Ma quindi se la tocco mi taglio?”

“Seee, perché ti tagli tutte le volte che tocchi un bicchiere? Prof, ma la sente?”

“No, hanno fatto il calendario, tocca a lui”.

“Ha solo espresso un’opinione…”

“Eh, prof, ma lo sente cosa dice?”

“Prova a spiegarle dove sta sbagliando secondo te. Ecco, guardate la LIM: vedete come è fatta l’ossidiana?”

“Prof, lì dice che viene da Lipari! Lo sa che ci sono stata in vacanza?”

Eccetera.

È questa la realtà quotidiana in cui ogni docente sa di dover calare qualunque metodologia abbia in animo di impiegare. Una realtà in cui la natura degli strumenti didattici, il livello medio di maturità degli alunni e le dinamiche relazionali interne a un odierno gruppo classe e tra questo e l’insegnante limitano inevitabilmente la frontalità e rendono impossibile la trasmissività univoca. Ed è precisamente per questo che, senza aspettare le roboanti banalità dei pedago-profeti aziendali, molti docenti passano il tempo a organizzare laboratori, inventare giochi interattivi, ribaltare i ruoli facendo preparare e condurre agli alunni vere e proprie lezioni, reperire materiale audio e video, produrne di proprio, farne produrre alla classe, suscitare dibattiti all’interno del gruppo (quelli veri, spontanei, fatti di tante sfumature quanti sono i partecipanti e con un tema da approfondire, non una competizione da vincere). Gli aziendalisti scolastici non hanno fatto che appioppare a tutto ciò dei nomi anglosassoni (peer education, cooperative learning, role playing, flipped classroom etc.), tratti dalla letteratura pedagogica di quelle scuole di pensiero a loro affini o sfruttabili per gli interessi di cui sono servi, e coniugarlo con la crociata contro i contenuti della quale abbiamo parlato nei paragrafi precedenti. Ovviamente, in questa guerra santa, i contenuti vengono spregiativamente definiti “nozionismo”, e la fantomatica “metodologia della lezione frontale” è additata come la madre di tutti i nozionismi, a cui bisogna tagliare la testa perché “i nostri ragazzi” siano finalmente liberi di apprendere.

Infine, questo apprendimento antinozionistico, moderno, libero e onnicomprensivo deve essere valutato. In base a quali criteri? I più caldeggiati dalla scuola-azienda sono quelli oggettivi, in cui è cioè possibile determinare se il risultato ottenuto dall’allievo sia giusto o sbagliato. Ad esempio, quelli su cui si fondano test così strutturati65:

Nella guerra greco-gotica si scontrarono

  1. Regno dei Vandali e Impero bizantino.
  2. Regno degli Ostrogoti e Regno dei Franchi.
  3. Regno dei Franchi e Impero persiano.
  4. Impero bizantino e Regno degli Ostrogoti.

Cioè si raccomanda di verificare un sapere nozionistico. Coerente, no?

In effetti sì, lo è. Perché la coerenza non sta nelle parole con cui la scuola-azienda si autorappresenta, e che hanno come unico fine l’efficacia dell’impatto emotivo, ma nella sostanza di ciò che mette in pratica. Ormai molti docenti sono assuefatti all’idea che sia importante essere oggettivi nel valutare gli allievi. Perché se l’alunno X dimostra di “valere quanto” l’alunna Y deve ricevere il medesimo voto. Ma che c’entra questo con la “cura olistica della persona”? E all’esigenza di chi risponde? Non certo dell’alunno X, che ha interesse a crescere, apprendere, maturare, scoprire come sia fatto il mondo, come interagire con esso in maniera vitale. Tutti scopi in vista dei quali la competizione con i voti dell’alunna Y è trascurabile, e una valutazione quantitativa totalmente inservibile. L’unico soggetto che abbia necessità di ridurre la prestazione dell’individuo a grandezza quantificabile, da misurare con precisione, è l’azienda che deve sapere quali standard garantirebbe quell’unità di capitale umano, settore per settore, qualora venisse assunta.

Nella fantasmagoria che la scuola-azienda spaccia come rappresentazione del mondo e di sé non possono esistere oggetti e soggetti reali, con le loro contraddizioni e sfaccettature. Ogni cosa viene trasformata in un feticcio, se è “buona”, o demonizzata, se è “cattiva”. E tra i due ambiti non può esserci rapporto dialettico, ma solamente opposizione dicotomica.

È quanto avviene con il martellante argomento della digitalizzazione. Non esistono più strumenti come la LIM, i siti web di divulgazione, le risorse didattiche digitali, le piattaforme multimediali, gli ipertesti etc., proficuamente utilizzabili all’occorrenza accanto a quaderno, penna, libro, pennello, chitarra, o scambio verbale dal vivo. Esiste La Scuola Digitale, ontologicamente una e indivisibile, buona e giusta, che è e non può non essere, e della quale nulla può essere pensato di migliore. Ergo chi la critica è un seguace del presunto credo nel nozionismo trasmissivo.

Non importa quanti docenti possiamo incontrare che fanno vedere un film usando la LIM, organizzano la classe in gruppi per delle ricerche in rete sui contenuti di quel film, dedicano ore di lezione all’esposizione e alla discussione collettiva dei risultati di quelle ricerche. Ognuno di quei docenti, se si permette di dire che istituzionalizzare la DAD è una via per rendere ipersfruttabile l’insegnante, estendendone e flessibilizzandone indefinitamente l’orario di lavoro a piacimento della scuola-azienda e del suo manager, e per di più senza un proporzionale incremento retributivo, è un nemico del nuovo che avanza e della tecnologia digitale che lo rappresenta. Non parliamo di chi si azzarda a ricordare una banalità come il fatto che i diversi canali dell’apprendimento stimolano diversamente le nostre capacità, per cui sostituire sistematicamente la lettura e l’ascolto con la visione di filmati o immagini fisse non è alcunché di olistico, bensì un drastico impoverimento degli stimoli a sviluppare il pensiero astratto e maturare una logica critico-argomentativa.

Una dinamica molto simile riguarda anche la modifica che caratterizza già da molti anni gli strumenti didattici di natura più tradizionale, come ad esempio i libri di testo. Questi si sono riempiti di componenti paratestuali che ne hanno utilmente arricchito i contenuti e potenzialmente incrementato l’efficacia e la fruibilità: apparati iconografici, risorse digitali, schede interdisciplinari e così via. Questo indiscutibile miglioramento si trasforma però nel suo opposto quando il paratesto finisce per costringere il testo a dimensioni talmente ridotte e a un tale livello di sintesi da non sottoporre più chi legge a uno sforzo di decodifica di un ragionamento discorsivo. Il capitolo da leggere sull’argomento trattato si risolve in una serie di affermazioni stringate, acontestuali e deproblematizzate (le aborrite nozioni), che il povero allievo non può che limitarsi a mandare a memoria. E di fatto è proprio questo che avviene: gli alunni imparano che non si studiano concetti, ma frasi. E a concludere il tutto, una mappa concettuale che presenta come pappa pronta quello che dovrebbe essere il risultato dello sforzo di rielaborazione dell’allievo: la sintesi di ciò che nel corso dello studio avrebbe dovuto scomporre analiticamente per poterlo comprendere.

Non stupisce che chi propone libri di tal fatta non ami la pratica dell’interrogazione: è evidente che studiando in questo modo non si arriverà mai ad articolare un discorso autonomo su quanto si è studiato. Da cui il menzionato “Non lo so spiegare”.

Da ultimo, veniamo al più antico degli attacchi alla scuola italiana: lo scollamento degli insegnamenti scolastici dalla vita reale. Storicamente, questa critica è stata declinata in due modi.

Il primo resta nel solco di una scuola pensata come percorso orientato alla maturazione di una cultura generale, aperta e critica, non improntata all’utilitarismo della spendibilità immediata nella concorrenza sul mercato. Esso imputa giustamente alla nostra scuola di non essersi mai davvero affrancata dalla matrice neoidealistica della riforma gentiliana. Facciamo senz’altro nostra la critica in tale accezione, e nell’ultima parte di questa trattazione spiegheremo in che termini.

Il secondo approccio è quello della scuola-azienda, e lo respingiamo in blocco. Meglio che da qualunque argomentazione teorica, la nostra posizione è chiarita dall’analisi di un ulteriore pilastro del sistema che qui si critica: l’alternanza scuola-lavoro66.

Inutile girarci attorno: si tratta di fornire alle imprese manodopera temporanea gratuita e ipersfruttabile. Quelle stesse imprese che, come si è mostrato fin qui, saranno sempre più i soggetti deputati a impostare i criteri di reclutamento, di aggiornamento e di avanzamento in carriera dei docenti, imporre metodologie didattiche, dettare i contenuti disciplinari e la loro soppressione, stabilire le griglie di valutazione degli allievi. Niente a che vedere con gli aspetti laboratoriali e sperimentali di uno studio scientifico, le ore di applicazioni pratiche di una disciplina tecnica, il passaggio dalla competenza passiva all’esercizio attivo in ambito umanistico. Tutto ciò si potrebbe avere se a impostare, gestire, monitorare e valutare il percorso fosse la scuola, e una scuola che in nulla dovesse rendere conto a soggetti aziendali o para-aziendali. Noi abbiamo l’opposto, e abbiamo già illustrato in che senso e perché. Tuttavia, riteniamo che su questo terreno le strategie della scuola-azienda, oltre ad essere criticabili negli obiettivi, siano anche incoerenti e contraddittorie nei metodi. Vediamo di approfondire.

La lunga storia dell’alternanza scuola-lavoro parte in Italia con le sperimentazioni degli anni Novanta. Inizialmente pensata come utile supporto ai percorsi di formazione professionale (Progetto ’92, d.m. 24-04 1992 pensato per l’istruzione professionale), con l’autonomia scolastica essa viene inserita nel percorso formativo dello studente delle scuole superiori come parte organica del percorso di formazione (“Pacchetto Treu” in attuazione della legge 196/1997). Estesi dapprima all’istruzione tecnica, i percorsi di tirocinio hanno raggiunto il peso maggiore nel curricolo con la legge 107/2015 (La Buona Scuola) che stabilivano 400 ore di percorsi di tirocinio lavorativo per gli iscritti ai tecnici e ai professionali e 200 per gli iscritti ai licei. La situazione attuale, frutto di un forte ridimensionamento del quadro orario precedente (150 ore ai tecnici, 200 ai professionali, 90 ai licei), è frutto delle linee guida pubblicate nel 2018 in attuazione della legge 145/2018. Il nuovo approccio istituisce i percorsi di alternanza come Percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento (PCTO). Con particolare riferimento a questo ultimo ambito le linee guida definiscono l’orientamento come un “processo continuo che mette in grado i cittadini di ogni età, nell’arco della vita, di identificare le proprie capacità, le proprie competenze e i propri interessi, prendere decisioni in materia di istruzione, formazione e occupazione, nonché gestire i propri percorsi personali”.

Per capire come tale attività possa essere declinata nella scuola dell’autonomia appare opportuno osservare la posizione della scuola stessa in rapporto alle altre istituzioni formative e in rapporto alle scelte individuali dello studente. A partire dal 1998 il preside diventa a tutti gli effetti il dirigente di una istituzione scolastica che gestisce come azienda (DPR 18-06-1998 n. 233), seppure pubblica. Lo scopo diventa conciliare la necessità di far quadrare i conti con l’obiettivo di base di formare lo studente-cittadino. Nello stesso anno la normativa sul dimensionamento scolastico stabilisce che per mantenere l’autonomia scolastica (cioè gli uffici di dirigenza e di segreteria), una scuola debba avere, ordinariamente, almeno 600 alunni. Come si riflettono queste situazioni nell’organizzazione interna delle scuole? L’elaborazione del piano triennale dell’offerta formativa implica, per l’attuazione, l’individuazione di alcune figure che si occupino di incarichi specifici (funzioni strumentali): uno di questi è l’orientamento, definito nei due ambiti dell’orientamento in entrata (nuove iscrizioni) e in uscita (studenti già presenti nella scuola). Con vincoli tanto stringenti appare chiaro che, accanto all’obiettivo dichiarato dalle linee guida citate, i docenti che si prendono carico della funzione strumentale siano nella difficile situazione di dover conciliare gli alti intenti di quest’ultimo con due obiettivi non dichiarati: 1. far incrementare le iscrizioni 2. evitare che gli studenti già presenti abbandonino la scuola. La trasformazione aziendalista della scuola e la ridefinizione degli studenti in utenti inducono quindi l’istituto a dover basare la propria esistenza sulle richieste del mercato della formazione e l’orientamento a condividere, giocoforza, alcuni aspetti con il marketing. La scuola deve dunque avere un’offerta formativa (sic) tale da aumentare il numero degli iscritti (la scuola deve apparire accattivante per lo studente e la sua famiglia) e un’attrattiva tale per gli studenti che essi non abbandonino l’istituto (gli studenti devono confermare la propria scelta e non cambiare istituto nel corso della propria carriera).

Si può riflettere su alcuni semplici dati. Per Unioncamere – ANPAL, Sistema Informativo Excelsior (2020)67 i diplomi più richiesti sono quelli dell’istituto tecnico a indirizzo economico (Amministrazione finanza e marketing) ma essi totalizzavano, nel 2021, solo il 10 per cento delle iscrizioni totali (fonte Miur)68. Secondo la stessa Unioncamere–ANPAL, Sistema Informativo Excelsior (2020) le richieste che le aziende rivolgono maggiormente agli studenti in uscita sono flessibilità e adattamento, lavorare in gruppo e problem solving. Anche assumendo l’ottica stessa del mercato, dunque, è evidente che esiste una discrepanza fra la richiesta e ciò che l’orientamento ottiene ed è altresì evidente che ciò che è richiesto non è una figura professionale iperspecializzata per un mondo che appare in rapido mutamento, ma capacità di lungo periodo che consentano di relazionarsi con il mondo circostante. Nel momento in cui lo studente diventa utente e i vincoli di bilancio e di “anagrafe scolastica” sono fondamentali per mantenere la stabilità occupazionale degli insegnanti e del dirigente si crea dunque un sistema disfunzionale in cui la scuola non produce ciò che la società (una parte di essa) richiede, ma cerca unicamente di ritagliarsi uno spazio nel mercato dell’istruzione proponendo allo studente consumatore un’offerta diversa da quella delle altre scuole.

La qualità della formazione peggiora per motivi analoghi anche negli ordini scolastici inferiori. Scuola secondaria di primo grado e scuola primaria stanno affrontando il grave problema del calo delle nascite: al 2020 il tasso di natalità, in particolare al meridione, è calato del 28 % rispetto al 200269. In base a quale criterio un genitore dovrebbe scegliere una scuola primaria invece che un’altra? Qui non si può ovviamente parlare di grosse differenze nell’offerta formativa ed è evidente che cifre di questo tipo danno maggiore attrattiva a scuole ricche, che prevedano attività pomeridiane e offrano un maggiore tempo scuola agli allievi. Questo diventa sempre più difficile nelle zone a basso popolamento o con un tessuto socioeconomico debole. Nel primo caso è chiaro che se il numero di allievi è basso si formeranno istituti sparsi per più comuni in cui l’ufficio di dirigenza non riuscirà a coordinare agevolmente la mole crescente di burocrazia, nel secondo caso le scuole non riusciranno a drenare dall’esterno risorse economiche a sufficienza per essere più attraenti rispetto a istituti più ricchi e diventeranno sedi secondarie di plessi più grandi ed economicamente forti che manterranno la sede della dirigenza scolastica e gli uffici. Si creerà dunque, per altre vie, la stessa situazione delle scuole superiori ma nella scuola dell’obbligo. Si può ottenere così il diritto costituzionale all’istruzione?

Abbiamo iniziato il nostro viaggio nella scuola dimostrando, documenti alla mano, che sempre più si tratta di un’appendice del mondo aziendale. Ci siamo quindi chiesti per quali ragioni quel mondo debba volere proprio una scuola fatta in questo modo e non in un altro. Sembrerebbe, infatti, che molto di ciò che la scuola conteneva, che si sta distruggendo e che è stato in gran parte già distrutto, sia qualcosa di sfruttabile anche in una prospettiva aziendale e utilitaristica. Per poter sciogliere quella che pare una contraddizione abbiamo dovuto analizzare la rappresentazione che la scuola-azienda dà di sé e come essa venga smentita dalla vita quotidiana nelle sue aule. Da ciò è emerso che la “scuola di oggi” si pretende nata in contrapposizione a una fantomatica “scuola di ieri”, immaginata come identica a sé stessa dalla notte dei tempi, fino all’avvento della rivoluzionaria epoca attuale che avrebbe spazzato via le tenebre.

Un rapido viaggio nel tempo smentirà facilmente quest’immagine. Ma forse riserva anche qualche sorpresa.

Formazione del soggetto e istruzione sull’oggetto

Un soggetto (la persona) sta di fronte a un oggetto (la natura, la società, la storia, il soggetto stesso, un passo di danza, un piatto da cucinare, una ferita da curare, un problema di lavoro da risolvere) e vi si relaziona con una consapevolezza via via crescente. Raggiunto un certo livello quantitativo, tale consapevolezza compie un salto qualitativo, passando dalla comprensione del singolo dato empirico a un’astrazione che sussume in una medesima categoria concettuale altri potenziali fenomeni analoghi. Infine, il soggetto torna ad agire sul terreno empirico, mettendo alla prova la conoscenza acquisita. Questo, in sintesi, il processo dell’apprendimento.

L’interazione soggetto-oggetto può vertere più sull’acquisizione di informazioni per via teorica o passare più attraverso l’azione pratica, o ancora essere un’integrazione armonica dei due approcci. Nelle pagine precedenti abbiamo dimostrato che la differenza tra “scuola di ieri” e “scuola di oggi” non sta su questo piano: entrambi i modelli mettono in atto l’uno e l’altro atteggiamento. La differenza è nel punto di vista da cui si considera la relazione.

La scuola-azienda impone una formazione del soggetto, scegliendo e adattando l’oggetto alle attitudini del soggetto stesso. Monitorando il processo, si saprà a quali esigenze dell’impresa sarà idoneo l’individuo formato che ne risulterà. Per questo il soggetto è pensato unicamente in termini di singolo individuo. L’oggetto è relativamente poco importante, mentre è fondamentale che il soggetto, nell’apprendere, introietti modalità di interazione con l’esterno che lo rendano assuefatto all’incasellamento che riceverà in azienda: da qui la maggiore importanza del come rispetto al che cosa. Questo adattamento dell’oggetto al soggetto rende praticamente impossibile che non si giunga al traguardo del “pezzo di carta”. Una parte di possessori di quel pezzo di carta viene poi assorbita dalle aziende fino a saturazione, gli esuberi si arrangino.

La “scuola di ieri” non faceva così. Individuava l’oggetto che riteneva necessario padroneggiare e cercava di istruire il soggetto su di esso: la formazione (sebbene spesso dichiarata come obiettivo nei proclami ministeriali) non era che una conseguenza necessariamente implicata. La selezione degli oggetti veniva fatta dalla scuola stessa in quanto articolazione della rappresentanza della collettività in ambito educativo. L’obiettivo era che determinate percentuali della popolazione, ritenute minime indispensabili per il funzionamento della società, raggiungessero livelli fissati di padronanza dell’oggetto selezionato. Gli esuberi si arrangiassero.

Al di là di questi basilari tratti comuni, non è esistita una “scuola di ieri”: ne sono esistite molte, perché “ieri” sono circa due secoli di storia, e si deve essere davvero molto ingenui per credere che in duecento anni l’unica novità sia stata la nascita della scuola-azienda.

Nondimeno, per tutto quel lungo periodo il criterio dell’istruzione sull’oggetto era rimasto una costante. Come veniva selezionato l’oggetto dell’apprendimento?

All’epoca in cui è nata la scuola pubblica moderna, nei ceti colti dei continenti europeo e americano era radicata l’idea che un fondamento della nostra civiltà fosse quella che è stata tradizionalmente chiamata “cultura classica”. Per tale ragione essa costituì da subito anche la base dell’istruzione.

Fin dagli anni della scuola che oggi è detta primaria, lo studio della lingua madre, soprattutto nella morfologia (parti del discorso e analisi grammaticale) e nella sintassi (analisi logica e del periodo) seguiva un’impostazione fissata dai grammatici alessandrini fra IV e II secolo a.C. per la lingua greca e successivamente mutuata in ambito latino. Ad esempio, i concetti di caso e di declinazione, notoriamente alla base dei nostri “complementi”, vennero formulati in quel contesto70.

Non andava diversamente per la matematica. L’insegnamento scolastico della geometria, ad esempio, fino alla fine del XIX secolo si basava sullo studio diretto degli Elementi di Euclide71. All’inizio del secolo XX si passò a manuali che derivavano in via diretta dal trattato euclideo (o da singole sezioni di esso), e soltanto a partire dagli anni ’60 il legame con quel modello, pur quasi mai reciso del tutto, cominciò a farsi più tenue72.

Nel campo delle scienze naturali e applicate (nel senso lato di tutte le discipline scolasticamente intese come scientifiche e tecniche esclusa la matematica), le ricerche degli ultimi decenni hanno parimenti dimostrato che il poderoso movimento di emancipazione culturale dei secoli XVII e XVIII che siamo soliti definire “rivoluzione scientifica”, si è fondato su riscoperte e riletture delle opere di scienziati dell’epoca ellenistica73. Ed è precisamente a quel bacino che i programmi scolastici attingevano.

Potremmo seguitare con la storia, tuttora ancorata alla dialettica tra l’approccio di impianto erodoteo e quello di matrice tucididea. O con la letteratura, che non smette di riflettere su categorie formali rintracciabili fin nei poemi omerici o nelle tragedie attiche, e codificate a partire almeno da Aristotele.

Quando non si trattava di alfabetizzare le masse o di assicurare un’istruzione di base al “cittadino medio”, ma di educare la futura classe dirigente, vi era il ginnasio-liceo, passaggio obbligato per l’università. Qui si aggiungevano, o si sarebbero aggiunte col tempo, altre discipline, quali la storia del pensiero filosofico e la storia dell’arte, e si studiavano anche le lingue e le letterature classiche direttamente sulle opere degli autori.

Il percorso descritto, al netto dell’effettiva capacità delle istituzioni di fare rispettare l’età dell’obbligo (che mutò nel tempo e a seconda dei paesi), poteva essere abbandonato strada facendo per imboccare un indirizzo direttamente professionalizzante: una formazione fatta di competenze (decisamente cognitive).

Il rapido excursus mostra che, tra il sorgere della Grecia delle poleis e il culmine della civiltà ellenistica, è nato qualcosa da cui la nostra cultura non ha mai più potuto prescindere. Ecco perché i fondatori della scuola moderna lo posero a base dell’educazione ai vari livelli. Per esprimerci nella terminologia che abbiamo proposto, nella scuola che essi fondarono, l’oggetto da padroneggiare via via era quel qualcosa. È decisivo sottolineare che costoro evincevano il valore di tale quid del quale impadronirsi dall’osservazione della realtà oggettiva, a prescindere dalle inclinazioni del soggetto che se ne impadroniva: per questo il soggetto a cui facevano riferimento non era individuale, ma collettivo. Se qualcuno avesse dimostrato loro che la geometria euclidea non era indispensabile alla collettività, l’avrebbero depennata dai curricula. Ma avrebbero trovato assurdo stabilire che il curriculum del singolo alunno prevedesse o meno lo studio del teorema di Pitagora in base ai suoi gusti personali, alle sue attitudini o a quanta fatica gli costava quello studio.

Ciò che abbiamo fin qui genericamente chiamato qualcosa, “oggetto”, quid, è in realtà tutt’altro che generico: è il metodo scientifico. In alcune discipline (le cosiddette “scienze dure”) esso costituisce il fondamento della disciplina stessa, in altre (ad esempio le discipline letterarie) non ricopre un simile ruolo. Anche in queste ultime, tuttavia, è un modello operante (magari inconsapevolmente) nel guidare la ricerca. Va da sé che chi scrive poesie non applica il metodo scientifico per verseggiare; ma lo studioso di letteratura che analizza quei versi (non per stabilirne la qualità poetica, bensì per descriverne gli aspetti tecnici e storico-culturali) lo fa in base a principi e a un rigore procedurale ispirati a quel metodo. Non è un caso che esso sia stato elaborato da quei dotti di epoca ellenistica che, in centri come Alessandria, Antiochia e Pergamo, codificavano la grammatica e classificavano le opere letterarie non meno di quanto misurassero la circonferenza terrestre, descrivessero il moto dei corpi celesti o progettassero macchine vantaggiose per sollevare pesi e abbattere fortificazioni.

Riteniamo che si riferisse a questo il grande matematico italiano Federigo Enriques quando, in una lettera a Giovanni Vailati, in polemica con le proposte per “declassicizzare” l’allora unico indirizzo liceale esistente nel Paese, affermava:

Quanto alla questione pedagogica cui Ella mi accenna, le dirò ch’io dò il più alto valore all’istruzione classica secondaria, come Ella forse già sa; temo quindi che i nuovi progetti tolgano il beneficio di questa istruzione a coloro che, secondo me, ne hanno più bisogno, cioè i futuri scienziati.74

I pilastri su cui si fonda quel metodo sono due: esso è sperimentale ed è dimostrativo. L’interrelazione fra queste due facce della medaglia implica un rapporto dialettico tra l’osservazione/azione condotta sul fenomeno concreto e l’elaborazione di modelli astratti sui quali compiere operazioni concettuali complesse. Due errori capitali possono inficiare il metodo: confondere tra modello e fenomeno e prescindere da uno dei due75.

La didattica per competenze spezza i nessi fenomeno-modello e sperimentazione-dimostrazione. Si confronti tale constatazione con la descrizione del processo di apprendimento da noi proposta all’inizio del presente paragrafo e si giungerà (salvo confutazioni) a una conclusione inevitabile: nella scuola-azienda non si apprende.

Il metodo sperimentale-dimostrativo ha avuto come iniziale presupposto le dinamiche socio-economiche e politico-culturali delle poleis greche. Fu lì che, accanto alla parola della tradizione, dei poeti, dei “maestri di verità”, acquisì centralità il discorso razionalmente fondato e logicamente argomentato. Fu lì (almeno per quel che riguarda il mondo occidentale) che l’argomentazione razionale diede vita a due discipline, una speculativa (ma legata all’indagine sulla realtà) e l’altra pratica, con tanto di professionisti specializzati: la filosofia e la retorica. E non si dimentichi che proprio la retorica fece parte della base della paidèia, secondo un’impostazione che lascerà a lungo il segno nel trivio (grammatica, retorica e dialettica), fondamento dell’istruzione ancora nel medioevo76.

Il contesto che rese necessaria questa metamorfosi della funzione della parola, da unicamente persuasiva per autorevolezza ad anche convincente per logica, era l’assemblea: un istituto che assunse la forma più radicale nei sistemi democratici, ma che caratterizzava la polis in quanto tale, anche sotto le oligarchie77. Il metodo sperimentale-dimostrativo nacque compiutamente nel mondo ellenistico, frutto dell’incontro fra la cultura greca dell’argomentazione razionale e le grandi civiltà dell’oriente mediterraneo, in possesso allora di una tecnologia assai più avanzata di quella ellenica e guidate da poteri centralizzati con un radicamento plurisecolare che la sfruttavano su larga scala78.

Tutta la cultura occidentale dell’età moderna ha dunque incessantemente attinto a quell’antica fonte: fatto confermato, tra l’altro, dal ruolo determinante che essa aveva nell’istruzione, fino a culminare nei programmi della scuola ottocentesca e del primo Novecento79. Il debito è stato sempre riconosciuto, finanche in toni celebrativi e iperbolici:

Diceva Bernardo di Chartres che noi siamo come nani che siedono sulle spalle di giganti, così che possiamo vedere cose più numerose e più lontane rispetto a loro, senz’altro non per l’acutezza della nostra vista o per l’altezza del corpo, ma perché siamo sostenuti ed elevati dalla statura dei giganti.80

Questa celebre citazione del vescovo e intellettuale inglese del XII secolo John of Salisbury apre simbolicamente una plurisecolare carrellata di prese di posizione che, dai filosofi del basso medioevo agli umanisti quattrocenteschi, dagli artisti e scienziati delle corti rinascimentali ai protagonisti della rivoluzione scientifica del ‘600, fino agli illuministi del XVIII secolo, riconosce al di là di ogni dubbio l’importanza della cultura antica come “radice” di quella moderna. E tuttavia essa esprime anche la consapevolezza del fatto che, grazie all’altezza dei giganti, noi possiamo vedere più in là di loro. Anche questo orgoglio di un superamento del sapere dei classici ha caratterizzato la storia della modernità.

Ma se per vedere più in là dei giganti è sufficiente stare sulle loro spalle, per andare al di là del sapere degli antichi non basta averlo ereditato: bisogna anche averlo compreso e assimilato. Ai tempi di John of Salisbury, il sapere “dei giganti” era però in gran parte incomprensibile finanche ai più alti esponenti del mondo della cultura. E ciò perché, malgrado vi fossero opere e conoscenze sopravvissute, non si era conservata la chiave per interpretarle: il metodo scientifico. Per un completo recupero del metodo, e di tutte le conoscenze antiche derivate dal suo impiego, sarà necessaria l’intera epoca moderna: nemmeno con Galileo e Newton il processo potrà dirsi compiuto. E per secoli l’ammirazione tributata alla cultura “classica” convivrà con l’idea di averla superata non per comprensione e assimilazione, ma in una competizione, nella quale aspetti non compresi del metodo sperimentale-dimostrativo ellenistico verranno mal sopportati o addirittura eliminati come orpelli superflui. La costante, in tutti gli episodi in cui emergerà questo secondo atteggiamento, sarà la lotta, non sempre esplicita, fra due diverse forme di utilitarismo.81

La scienza antica non fu speculazione fine a sé stessa. L’obiettivo dei formulatori del metodo sperimentale-dimostrativo, secondo una nota espressione che ricorre da Plutarco a Simplicio, riferita a diversi filosofi e scienziati, era “salvare i fenomeni”82. Con la precisazione che, mentre nel linguaggio attuale il termine “fenomeno” indica il fatto osservato, indipendentemente dall’osservatore, nell’accezione greca antica esso designa la percezione del fatto83. Dunque lo scienziato ellenistico formulava ipotesi, elaborava modelli, effettuava esperimenti, per dare conto razionalmente di ciò che si percepiva con i sensi. I problemi che tentava di risolvere con le sue ricerche li poneva oggettivamente la realtà. Ma egli riteneva di averli risolti soltanto quando ne aveva spiegato le cause e aveva dimostrato la validità delle spiegazioni. Ciò non generava la presunzione che la spiegazione trovata fosse l’unica possibile, ma nemmeno riduceva il suo valore alla sola efficacia pratica: si innescava una dinamica di potenziali successive o parallele approssimazioni alla ricercata causa del fenomeno, secondo una concezione non statica e non trascendente della verità84. L’utilitarismo della scienza antica consisteva in questo.

L’età moderna ha via via introdotto una differente idea di utilità, che vede nella natura dimostrativa del metodo scientifico un arnese analogo a quelli dell’artigiano, da usare solamente quando e perché la causa del fenomeno indagato non sembra evidente di per sé85. Ciò ha aperto la strada all’approccio oggi sposato dalla scuola-azienda: insegnare che è superfluo interrogarsi sulla causa quando il fenomeno è sfruttabile anche senza conoscerla. L’utilitarismo dell’artigiano, appunto. Più ancora, del mercante. Non a caso la sua affermazione corre parallela all’ascesa storica della borghesia. E non a caso il suo definitivo trionfo comincia agli albori della prima rivoluzione industriale e culmina con l’aziendalizzazione della società che viviamo oggi.

Va sottolineato il nesso tra questa concezione dell’utile e l’individualismo che abbiamo rilevato tra i capisaldi della scuola-azienda. L’utilitarismo mercantile è pienamente comprensibile solo entro una logica di concorrenza. In un contesto in cui la regola fosse la cooperazione fra soggetti interrelati in un corpo collettivo, esso perderebbe molto della propria urgenza.

Un contributo non secondario a questo individualismo utilitaristico-concorrenziale è stato dato da taluni accenti antiilluministici, antimaterialistici e irrazionalistici del Romanticismo, che hanno inciso nella mentalità collettiva degli ultimi due secoli più profondamente e durevolmente di molti altri fenomeni culturali, e con ben maggiore capacità di attraversare gli strati sociali e le generazioni. Quei medesimi aspetti irrazionalistici e individualistici del movimento romantico hanno avuto anche notevoli ripercussioni positive, aprendo vie insospettate soprattutto sul terreno artistico e letterario. Ma è con il Romanticismo, e soprattutto con i suoi epigoni e l’onda lunghissima della sua vulgata, che la riduzione dell’oggetto ad appendice del soggetto ha assunto connotati sostanzialmente fideistici. Se non avesse avuto alle spalle due secoli di rimasticature romantiche, l’ideologia individualistica avrebbe avuto più difficoltà a diventare la mentalità di riferimento anche nel campo dell’istruzione.

Non va dimenticato, inoltre, che l’epoca di nascita della moderna scuola pubblica è quella del trionfo dei nazionalismi, ed è proprio lo stato-nazione che crea la sua scuola. Anche su questo aspetto il Romanticismo ha avuto un’influenza non di scarso rilievo. Sarebbe superfluo soffermarci sul rapporto fra la scuola italiana delle origini e la retorica risorgimentale, mentre accenneremo a breve a quello tra scuola pubblica e costruzione dello stato-nazione in Germania. Ma è un altro il punto essenziale su cui bisogna riflettere in partenza: perché la scuola pubblica nasce proprio allora?

La borghesia è la prima classe che, nel farsi stato sull’onda della rivoluzione industriale, ha bisogno di assicurarsi un’istruzione di base ampiamente diffusa, omogenea su tutto il territorio e strettamente controllata. L’aristocrazia feudale si occupava dell’educazione dei propri membri, ed era un’educazione totalmente diversa da quella scolastica: impartita per lo più da precettori privati, verteva sull’arte militare, la diplomazia, lo “stare in società”, oltre che su alcune discipline più vicine a quelle della scuola odierna. Il resto della popolazione, fin dal medioevo, frequentava (in percentuali assai ridotte) scuole ecclesiastiche e monastiche, mentre le università nascevano come libere associazioni di docenti o di studenti.

In seguito, nelle città, dove l’aristocrazia fu spesso costretta per lo meno a una condivisione del potere con la borghesia, sorsero istituti laici gestiti da privati o dal comune, ma per lo più con docenti retribuiti direttamente dagli allievi. Anche la frequenza gratuita conobbe i primi esperimenti in queste scuole cittadine.

Nel Settecento, in una temperie in cui la mentalità borghese influenzava ormai profondamente i cosiddetti sovrani “illuminati”, vide la luce il fenomeno delle vere e proprie scuole statali. Ma soltanto nel secolo successivo (a parte il prologo, più sancito che praticato, nella Francia rivoluzionaria prenapoleonica), con la borghesia ormai saldamente classe dominante, prese piede quello dell’obbligo scolastico.

Uno stato borghese moderno, anche nei casi più estremi di liberalismo, è diffuso sul territorio e presente in diversi aspetti della vita dei cittadini, quali la gestione delle infrastrutture, la riscossione delle tasse, la difesa, l’ordine pubblico, la giustizia. Un tale stato può funzionare soltanto se la popolazione è largamente alfabetizzata e lo è secondo modi e principi omogenei. Ma non è affatto nell’interesse della classe dominante che ogni grado dell’istruzione sia ugualmente accessibile a tutti. La scuola pubblica nello stato borghese nasce marcatamente classista. L’istruzione secondaria è concepita per un’élite, sebbene più ampia di quella direttamente al potere: deve poterla ottenere una minoranza senza il cui apporto “di concetto” la macchina dello stato si incepperebbe. Magistrati, funzionari ministeriali, insegnanti e varie altre figure necessitano di un’istruzione ben più avanzata della semplice alfabetizzazione. Ma una scuola che apra le proprie porte oltre l’assolvimento di questo compito non è superflua alla borghesia, le è dannosa: chi non è strettamente indispensabile che studi, meno strumenti culturali possiede più è facile da sottomettere. Gran parte delle battaglie ideali e politiche nella e sulla scuola degli ultimi duecento anni ha infuriato proprio attorno a questo problema: se il sapere è mezzo di emancipazione, non c’è emancipazione senza democratizzazione della scuola.

Prima di ripercorrere le vicende di quelle battaglie, con le quali concluderemo il nostro viaggio nella scuola di ieri e di oggi, occorre però mettere sul tavolo un ultimo tema. Essendo molto complesso e tuttora irrisolto, ci limiteremo ad accennarlo, ma non può essere eluso, perché è una componente di quel progressivo distacco della scuola dalla “cultura classica” che stiamo raccontando. Riguarda la storia dell’insegnamento delle due lingue in cui quella cultura si è espressa: il greco e il latino. Facciamo nostra la posizione di Lucio Russo secondo cui la lettura delle opere dei classici negli idiomi in cui sono state scritte (con importanti distinzioni fra i due86) è parte integrante dell’appropriazione, ad opera di una collettività (non necessariamente nella persona di ogni suo singolo membro), di quell’insostituibile lascito culturale del quale ci siamo occupati in queste ultime pagine87.

Tuttavia non è nostra intenzione prendere partito in questa sede nel dibattito sull’insegnamento del greco e del latino, bensì ricordare un singolo cruciale episodio che si colloca proprio alle origini della scuola moderna.

Come è noto a chi si interessa di storia della didattica, la moderna scuola secondaria europea ebbe, al suo sorgere, un solido modello nel Ginnasio umanistico prussiano-tedesco. Nato sotto la direzione di Wilhelm Von Humboldt e l’influenza del pensiero di Friedrich August Wolf, esso aveva nello studio delle lingue classiche il principale pilastro88. Tale studio vi si svolgeva seguendo un’impostazione profondamente diversa da quella consolidata nei secoli fino ad allora, e l’innovazione muoveva soprattutto da due fattori: la volontà di rimarcare una specificità nazionale in funzione antifrancese e la decisiva influenza sull’insegnamento delle lingue classiche avuta dagli studi storico-filologici.

I due aspetti sono inscindibili. I filologi tedeschi dell’epoca, che in questo furono maestri indiscussi, attirarono l’attenzione della comunità scientifica e dei ceti intellettuali sulla possibilità di ricavare dallo studio di una lingua fondamentali informazioni circa la storia e l’identità della popolazione che la parla. È dalle analisi comparatistiche in ambito linguistico di quel periodo che ha origine, ad esempio, il concetto di “popolazioni indoeuropee”, senza il quale una parte del dibattito archeologico e storico-antropologico del Novecento avrebbe seguito tutt’altro corso.

Sembrò allora che la ricerca dello “spirito originario di un popolo”, attraverso la storia della sua lingua, consentisse di individuarne i caratteri peculiari, che parevano riflettersi in maniera coincidente anche nelle tradizioni e nelle espressioni artistiche. Da lì a identificare tutto ciò con un patrimonio intangibile della nazione, da salvaguardare, idealizzare e proporre a modello, il passo fu brevissimo: l’età della nascita degli stati-nazione non chiedeva di meglio89.

Ma nello specifico degli studi ginnasiali e liceali, l’influenza della filologia operò principalmente in un’altra direzione. Certo, Von Humboldt all’inizio dell’800 promuoveva lo studio della lingua greca perché riteneva che vi si esprimesse un’elevatezza di spirito che considerava eguagliata, fra i moderni, soltanto dai tedeschi. Tuttavia la vera rivoluzione determinata dall’impatto della filologia storica sull’insegnamento scolastico delle lingue classiche, più che ideologica, fu metodologica.

Nacque allora l’idea che una lingua classica, anche a scuola, possa essere studiata non per utilizzarla, cioè per leggere le opere dei classici, comprenderle in originale e avere così accesso diretto alla cultura che le ha prodotte e alla mentalità che esprimeva, ma per indagarne la struttura fonetica, morfologica e sintattica come cosa in sé.

Le radicali conseguenze di questo cambiamento non furono immediatamente percepite sul piano sociale. La polemica infuriò da subito, ma era sostanzialmente una schermaglia fra eruditi90. Essendo, come si è detto, le scuole liceali di allora estremamente elitarie, gli insegnamenti di greco e latino ivi proposti potevano permettersi di essere talmente massicci per numero di ore dedicate, approfonditi per contenuto e selettivi per criteri di valutazione, che l’impressione finale era sempre quella di una leva di studenti in grado di padroneggiare le lingue classiche. Ma il rovesciamento paradigmatico era avvenuto.

In Italia, il primo grido d’allarme fuori dalle battaglie accademiche fu lanciato nel 1893 da Giovanni Pascoli, in qualità di relatore per una commissione di inchiesta sull’insegnamento del latino nei ginnasi-licei del Regno, istituita dall’allora Ministro della Pubblica Istruzione Ferdinando Martini91.

Il poeta, particolarmente sensibile al tema della letteratura in lingua latina, nella quale era grandissimo e riconosciuto continuatore dei classici, lamenta quello che ritiene un ribaltamento della prospettiva, per cui lo studio di Lucrezio e Virgilio è un mezzo per sapere come è fatta la lingua latina. Con l’esito, sconfortante secondo Pascoli, di intere generazioni di studenti che imparano a odiare la letteratura classica, la quale è nella loro esperienza un mero supporto all’apprendimento e all’applicazione di norme descrittive della struttura linguistica.

Nel corso del XX secolo, come vedremo tra breve, le vicissitudini degli studi liceali attenueranno, fin quasi a eliminarla, la natura elitaria e ultraselettiva di questi, rendendoli accessibili a fasce di popolazione sempre più larghe. Ma la ratio dell’insegnamento delle lingue classiche, pur mutando sotto vari aspetti92, resterà “grammaticocentrica”. Il risultato è noto. Lo studente liceale di latino e di greco sarà sempre più un adolescente assuefatto a vedere nella lingua su cui si affatica un’applicazione delle regole grammaticali, anziché in queste una descrizione più o meno approssimata di ciò che egli fa quando usa quella (“salvare i fenomeni”). Un giovane abituato a sentirsi dire che un’ode di Orazio non si studia per godere di un’opera d’arte, ma perché “lo studio del latino esercita la logica” (cosa senz’altro vera, ma obiettivo raggiungibile anche in mille altri modi). Una persona che, uscita dal liceo, non avrà acquisito fra le proprie letture gli autori classici, per i quali seguiterà ad avere lo scoraggiante bisogno continuo del vocabolario.

E così, in una scuola ormai di massa, la ragionevole critica dell’innaturale inversione del rapporto fra padronanza (attiva e/o passiva) della lingua e studio della grammatica scivolerà nell’indifendibile distruzione dell’insegnamento della grammatica in quanto tale. Inevitabile: prima si è capovolto il rapporto tra il fenomeno (la letteratura classica) e il mezzo scientifico (la grammatica) atto a “salvarlo”. Poi, privo di fenomeni da salvare perché trattato da fenomeno esso stesso, il mezzo scientifico non può più servire, e viene dismesso. Esito ultimo: la sempre più diffusa incapacità di leggere in originale (e quindi davvero in profondità) gli antichi poeti, ma anche gli antichi filosofi, storici, matematici, studiosi della natura, della lingua, della letteratura, della società. Autori la cui lettura mantiene in contatto fecondo con quel particolare sguardo sulla realtà che essi per primi avevano avuto, e che va oltre l’utile del mercante, perché nulla si accontenta di veder funzionare e fruttare, ma tutto ha necessità di dimostrare e di rimettere in discussione. A questo abbiamo rinunciato. Metodica discesa dalle spalle dei giganti.

L’Ottocento della prima rivoluzione industriale fu dunque, nel mondo euro-americano, il secolo dell’avvento della scuola pubblica nell’accezione fin qui illustrata. È importante sottolineare l’omogeneità in tal senso fra le due sponde dell’Atlantico. Oggi siamo abituati a veder giungere dagli USA molto di ciò che identifica la scuola-azienda, ma, contrariamente a quanto si tende superficialmente a credere, la concezione pedagogico-didattica fondata sul nesso fra competenze non cognitive e utilità del mercante non costituisce alcunché di “tipicamente americano”, che pertanto dileguerebbe da sé una volta che ci si affrancasse dall’influenza ideologica dello zio Sam. La classe dirigente statunitense delle prime generazioni, a cominciare dai padri costituenti, possedeva una solida formazione classica, della quale non perdeva occasione di ribadire l’imprescindibilità93. E gli studi classici erano il perno dell’istruzione secondaria statunitense non meno che di quella europea94. A un certo punto qualcosa cominciò a cambiare, ma non soltanto laggiù.

Ad esempio, il Kaiser Guglielmo II, nel 1890, salutava con favore l’inversione di tendenza del Ginnasio umanistico rappresentata dalla riduzione delle ore di greco e latino a vantaggio del tedesco e dell’inglese. E la ragione del suo entusiasmo per la limitazione degli studi classici era lo stesso nazionalismo che all’inizio del secolo aveva spinto Wilhelm Von Humboldt a promuoverli ed esaltarli:

«Noi […] dobbiamo formare giovani tedeschi, non giovani greci e romani»95.

In Italia montava una polemica parzialmente diversa nei toni, ma molto simile nei contenuti, rispetto alla quale abbiamo già menzionato la posizione di Federigo Enriques, e che sfocerà nelle proposte e negli esiti che stiamo per ricordare.

La svolta dipese dal fatto che gli anni a cavallo tra quel secolo e il successivo videro il sorgere della “società di massa”, la quale nella seconda metà del Novecento avrà ormai portato a maturazione quella concezione della cultura che ancora oggi domina. E il fenomeno partì senza’altro dagli Stati Uniti, ma la sua natura e la sua genesi non vanno ricercate nell’antropologia di quel paese, bensì nello sviluppo della società capitalistica, come chiarisce il seguente brano di Lucio Russo:

Il nuovo sistema economico aveva generato, accanto alla riduzione delle competenze richieste ai lavoratori, l’aumento del loro tempo libero e delle loro disponibilità economiche. Si è così aperto un vasto mercato per la produzione di merci culturali per il consumo di massa. Allo stesso tempo, per le imprese produttrici di merci tradizionali la formazione dei consumatori è divenuta più importante di quella dei produttori. Per entrambi i motivi la profonda trasformazione della scuola si è accompagnata a uno sviluppo impetuoso dell’industria dell’intrattenimento. La produzione di massa di beni culturali di consumo destinati a essere usati nel tempo libero dalla generalità della popolazione è nata negli Stati Uniti nella seconda metà del XIX secolo, e si è diffusa in Europa e nel resto del mondo nel corso del Novecento, costituendo fra l’altro un formidabile strumento di assimilazione culturale e di esportazione del modello americano. Negli Stati Uniti si iniziò con mostre e spettacoli dal vivo: le prime star nacquero nel teatro del vaudeville (le cui origini risalivano alla Francia, ma che esplose come fenomeno di massa negli Stati Uniti del secondo Ottocento) e in spettacoli come quelli offerti dal circo Barnum o dal famoso Wild West Show di Buffalo Bill. Successivamente hanno acquistato via via più peso la stampa popolare periodica, con il nuovo genere del fumetto (nato sui quotidiani per poi dare vita a pubblicazioni autonome), il cinema, la radio, la televisione, canzoni e altra musica commerciale, videogiochi e, più recentemente, internet.96

Questo ingresso nella società di massa senza uscire dall’ordinamento sociale basato su un modo di produzione finalizzato al profitto e alla mercificazione ha avuto profonde e durature ripercussioni sulla cultura e sull’educazione.

La cultura intesa come padronanza di un bagaglio organico e strutturato di mezzi concettuali per interpretare la complessità del reale ha perso sempre più terreno. Come abbiamo ampiamente argomentato, tale cultura aveva costituito fino ad allora l’oggetto dell’istruzione scolastica secondaria, e perciò caratterizzava una minoranza della popolazione, ma una minoranza consistente, non ridotta alla sola élite al potere, e nemmeno agli intellettuali stricto sensu. Tale strato sociale culturalmente medio-alto era portatore di quella che veniva chiamata “cultura generale”. Lo sviluppo tecnologico industriale favoriva la “riduzione delle competenze richieste ai lavoratori, l’aumento del loro tempo libero e delle loro disponibilità economiche”: il ceto medio si ingrossava e, come effetto della medesima causa, la cultura di cui era portatore si livellava verso il basso. Sicché con il termine “cultura” si intendeva sempre più quell’insieme incoerente di “merci culturali per il consumo di massa” di cui parla Russo. Ma il livellamento culturale non era la spia di una maggiore equità sociale. La riduzione e la semplificazione del bagaglio necessario al “cittadino medio” per contribuire al funzionamento della società consentivano alle classi dominanti di depotenziare sempre più l’istruzione superiore, mentre questa si estendeva a fette sempre maggiori di popolazione. Il fatto non fu evidente da subito, e anzi dapprima sembrò di assistere a un impetuoso processo di democratizzazione della cultura e dell’istruzione. Ciò fu dovuto a tre fattori.

Il primo fu il progressivo innalzamento dell’età dell’obbligo, che continuava a essere letto unilateralmente come emancipatore, anche quando si accompagnava all’impoverimento dei contenuti dell’insegnamento.

In secondo luogo, a partire dagli effetti su scala planetaria della rivoluzione russa del 1917, le lotte sociali diffuse globalmente e la crescente organizzazione e combattività del movimento dei lavoratori in tutto il mondo modificarono nettamente i rapporti di forza rispetto al quadro del secolo precedente. Molti argini eretti alle derive elitarie dell’istruzione dipesero da quelle lotte.

Infine, in molti paesi il progresso industriale fu tardivo e lento e le resistenze tradizionaliste al cambiamento molto tenaci.

Ad esempio, in Italia, se il dibattito sui temi che stiamo trattando era già ottocentesco e le sue prime conseguenze nel mondo della scuola risalgono al primo decennio del XX secolo97, è solamente con la riforma Gentile del 1923 che arrivano le modifiche destinate a non essere revocate a breve. Il Paese era entrato nel ventennio fascista, e ciò costituiva un’altra di quelle trasformazioni interne alla storia della “scuola di ieri” sulle quali i tifosi della scuola-azienda come “nuovo che avanza” tacciono per dare l’idea che fino all’avvento di quest’ultima sia esistito soltanto un universo scolastico immobile dalle origini.

Nello Stato liberale, le posizioni che si erano affrontate in materia di politiche scolastiche erano state espressione di varie scuole di pensiero, fra le quali un ruolo non secondario era stato giocato dall’influenza del positivismo. Con l’ascesa del fascismo e l’insediamento di Giovanni Gentile al Ministero della Pubblica Istruzione trionfò, com’è noto, il neoidealismo.

L’innovazione strutturale più netta e duratura della riforma del 1923 fu l’istituzione del Liceo scientifico, che depennava lo studio della lingua greca dai requisiti di una “cultura generale” per l’accesso all’università (inizialmente solo alle facoltà scientifiche e mediche, l’estensione verrà in seguito). Con questo passo si iniziò a rendere chiaro che la “cultura classica” non era più considerata la base necessaria di una preparazione universalistica, ma lo specifico di un determinato ramo: quello umanistico-letterario (e più tardi la sola parte di esso definita, appunto, classicistica). E si sancì definitivamente l’incomprensione di ciò che aveva capito un matematico come Federigo Enriques e che ai giorni nostri ha ribadito e approfondito un fisico e storico della scienza come Lucio Russo: la “classicità” del metodo scientifico e l’importanza degli studi classici (e soprattutto di ambito greco) per gli scienziati.

È innegabile che la riforma subisse il segno dei tempi: non ci stupiremmo di venire a sapere che secondo l’ormai ex Kaiser Guglielmo il Ministro Gentile si stesse apprestando a “formare giovani italiani e non giovani greci”. Ma nel dare questo decisivo contributo a suggellare per via istituzionale la discutibile dicotomia fra cultura umanistica e cultura scientifica, che almeno da allora in Italia è particolarmente drammatica, il filosofo, e l’intero sistema scolastico del Paese, stabilivano anche una chiara gerarchia fra le due, con la netta supremazia della prima sulla seconda.

Ora, questo tratto della riforma gentiliana, di per sé non definibile altrimenti che oscurantista e reazionario, è probabilmente una delle cause principali della più lunga ed efficace resistenza (verrebbe da dire ironicamente: resilienza) della cultura classica negli studi secondari italiani. Certo, questo studio della lingua in funzione della grammatica, della letteratura a scopo non letterario, dei filosofi marginalizzando o travisando la componente scientifica del loro pensiero, questo studio di Omero e mai di Archimede, di Pindaro e mai di Euclide, di Eschilo e mai di Apollonio, questo studio salvatosi unicamente nella torre d’avorio di una scuola che verrà sentita e pubblicamente indicata sempre più come astrusamente specialistica, frequentata da studenti che “all’università poi sono i più bravi”, e però “che se ne fanno delle lingue morte?”, è suppergiù il contrario dell’auspicio di Enriques e Russo. Ma è anche la storia del più duraturo permanere degli studi classici nella scuola secondaria di un paese occidentale.

La differenziazione cominciava subito dopo le elementari, quando si poteva scegliere fra le scuole di complemento (considerate appunto un semplice coronamento del ciclo primario) e le medie inferiori. Queste ultime erano a loro volta differenziate per indirizzi, e prevedevano ancora lo studio del latino. La netta gerarchizzazione proseguiva nei gradi superiori: solamente gli indirizzi classico e scientifico (nei termini sopra specificati), davano accesso all’università, mentre non lo consentivano il magistrale, il tecnico e il femminile.

Proprio contro questa struttura palesemente classista, discriminatoria e gerarchizzata della scuola di derivazione gentiliana si sono svolte in Italia le più accanite battaglie per la democratizzazione dell’istruzione a cui abbiamo accennato in precedenza. Con la nascita della Repubblica, la ricostruzione post-bellica e il boom economico degli anni ’50-’60, le forze politiche e sociali che premevano perché lo studio fosse occasione di emancipazione videro in quel modello una delle cause per le quali l’accresciuto benessere generava scarsa equità sociale. Tuttavia, nel porsi alla testa dei movimenti che spingevano per il rinnovamento, non sempre seppero discernere in essi dove stessero gli interessi popolari, finendo a volte col fare il gioco “del re di Prussia”. Fenomeno ben descritto, ancora una volta, da Lucio Russo:

In Europa questo processo è stato agevolato dall’atteggiamento assunto dai partiti tradizionalmente “di sinistra”. Molti politici convinti di essere progressisti, associando il tradizionale asse culturale riservato alle classi privilegiate al privilegio stesso, si sono infatti paradossalmente posti l’obiettivo non di fare accedere le classi popolari ai livelli più alti di istruzione, (eventualmente da ridefinire nei metodi e nei contenuti), ma di eliminare tali livelli dalla scuola pubblica. I livelli superiori di formazione, richiesti a un esiguo numero di lavoratori, sono stati trasferiti prima alle università e poi alle scuole di dottorato, concentrandosi su singole specializzazioni, prive ormai del fondamento di una seria cultura generale comune.98

Il processo è stato lungo e non lineare, ma oggi ne stiamo vivendo l’esito trionfante. Esaurita da decenni la spinta del boom economico, la ridistribuzione della ricchezza si è orientata sempre più verso le classi dominanti, mentre la loro cerchia si assottiglia e il divario fra esse e i lavoratori che producono quella ricchezza non fa che aumentare.

I palpiti finali di una scuola che ancora, forse per pura inerzia, insegnava gli estremi brandelli della cultura generale di un tempo, si sono avuti negli anni ’80 e ’90. Quella fase è stata preziosa per la riflessione attorno a un tema su cui torneremo in chiusura: è stato allora che gli esiti metodologici meno ingenui e superficiali delle lotte per la democratizzazione della scuola hanno convissuto, sia pure per una stagione breve e che non è stata capace di risolvere i problemi individuati, con dei contenuti disciplinari che non avevano ancora perso la centralità curricolare e gli ultimi residui di spessore. Riteniamo che chi voglia riflettere su una scuola del futuro radicalmente diversa da quella del presente debba studiare l’esperienza di quegli anni.

Da allora ci separa l’epoca rampante della cosiddetta globalizzazione, ossia dell’estensione mondiale del dominio di un pugno di multinazionali, a cui precedentemente era preclusa la conquista di una non piccola parte del pianeta nella quale il mercato non regnava sovrano. Per i paesi occidentali ciò ha significato un massiccio processo di delocalizzazioni del comparto produttivo e di terziarizzazione interna, andata di pari passo con la privatizzazione già menzionata. Se il progresso tecnologico nella produzione e la semplificazione che ne derivava avevano ridotto la necessità dell’acquisizione scolastica di una cultura generale di livello medio-alto, il passaggio di enormi porzioni della popolazione lavoratrice dalla produzione delle merci ad attività legate alla loro circolazione ha espulso del tutto dall’orizzonte il bisogno di una scuola che formi produttori, più o meno “di concetto” che siano99.

Dunque possiamo chiudere il cerchio, rispondendo a una domanda che ci siamo posti molti paragrafi addietro: no, con la realizzazione di una scuola-azienda come quella che abbiamo descritto, l’interesse del capitale privato che si esprime nell’aziendalizzazione non sega affatto il ramo su cui siede. Perché è un mondo aziendale che non ha più bisogno di inventare, creare, progettare, ideare, produrre, ma soltanto di vendere al prezzo più alto e al maggior numero di acquirenti.

Le imprese per le quali “la formazione dei consumatori è divenuta più importante di quella dei produttori” sono precisamente quelle che, come abbiamo visto, hanno ormai plasmato e saldamente dirigono la propria scuola: la scuola-azienda. Qui la “cultura generale” di un tempo è stata definitivamente sostituita dalla “cultura di massa”. Una cultura che sempre più raramente si distingue dall’ignoranza, o come più elegantemente si dice oggi, dall’analfabetismo funzionale.

Al di sopra di ciò, una esigua casta di “esperti” provenienti da pochi selezionati percorsi “di eccellenza”, ma troppo poco numerosi per poter costituire quello strato intermedio di “gente colta” che fungeva da filtro e raccordo fra intellettuali e classi popolari nel processo di elaborazione della cultura generale condivisa. Ognuno di essi è ormai specialista di un infinitesimo spicchio dello scibile, al di fuori del quale rasenta spesso anch’egli l’analfabetismo funzionale, incomunicante con gli esponenti degli altri settori e incomprensibile da chi sta sotto:

Una specializzazione minuscola, infatti, tende ad essere caratterizzata non solo da un oggetto limitato, ma anche da un particolare metodo di ricerca e quindi i suoi cultori tendono a formare una comunità omogenea, divisa certo al suo interno da fieri contrasti personali, ma non da polemiche tra scuole, come avveniva un tempo. Se ad esempio qualcuno volesse mettere in dubbio l’utilità degli studi codicologici concentrati sul margine vuoto dei manoscritti100, si tratterebbe con ogni probabilità di uno studioso esterno al gruppo degli specialisti che producono pubblicazioni sull’argomento e per ciò stesso sarebbe considerato incompetente a pronunciarsi sulla questione.

Se in un settore nasce un dibattito tra due teorie alternative la struttura della comunità scientifica favorisce la creazione di due distinte microdiscipline, ciascuna dotata di un proprio spazio accademico. In fisica teorica la teoria delle stringhe ha dominato incontrastata per decenni, prima di entrare in una rapida e decisiva crisi. Il motivo è trasparente: i teorici delle stringhe, per definizione, avevano scelto di accettarla e gli altri, anch’essi per definizione, non avevano competenza per pronunziarsi sull’argomento. Una teoria che non ha mai previsto alcun fatto sperimentale ha potuto così tener campo incontrastata finché il suo fallimento non è divenuto così palese che qualcuno ha ritenuto conveniente gridare che il re era nudo101.

Ma nel contempo, come tristemente sappiamo, questi “esperti” sono sempre molto democraticamente criticabili da qualunque cittadino abbia voglia di improvvisarsi conoscitore della loro disciplina per essersi formato “alla scuola di internet”. Un parziale argine a questo estremo dilagare dell’effetto Dunning-Kruger102 lo costituiva proprio il filtro esercitato dalla cultura generale, vissuta come unitaria, condivisa da uno strato di popolazione sufficientemente nutrito da rendere graduale la mediazione tra le conoscenze degli intellettuali strettamente intesi (alla cui elaborazione indirettamente contribuiva) e la grande maggioranza della popolazione103:

Oggi si è invece diffusa l’idea che le conoscenze non siano altro che un enorme insieme incoerente, utilmente suddivisibile in una miriade di microsettori, e che sia sufficiente una pattuglia di specialisti per ciascuno di essi per assicurare il progresso dell’umanità, in assenza di una cultura condivisa che vada al di là di una rudimentale alfabettizzazione. La cultura, come le moderne cucine o i prodotti di una certa architettura, sarebbe cioè una mera struttura componibile, priva di organicità e di elementi fondanti, ottenibile assemblando elementi autonomi e tra loro indipendenti104.

Dalla cultura ai “saperi”, come si afferma altrove nel medesimo testo, o ai know how, come più scopertamente va di moda chiamarli: i “saper come (fare)” (qualcosa di meno del “saper fare”), al plurale perché settoriali e assemblabili a piacimento, lontani dalle conoscenze e vicinissimi alle “competenze” su cui è incentrata la scuola-azienda.


4. Che scuola volere?

La scuola-azienda ha lo scopo, evidente e in gran parte dichiarato, di formare il capitale umano necessario a un’economia di mercato nelle sue aree dominate dal terziario: venditori e consumatori di merci in larga misura destinate a un tempo libero dominato da bisogni indotti. Questa è la scuola che abbiamo oggi nel “mondo occidentale”. Laddove sembra che non sia così, ci stiamo imbattendo in un limitato aspetto residuale la cui cancellazione è già prevista da disposizioni che entreranno in vigore nei prossimi mesi, producendo i loro effetti nel giro di pochi anni al massimo.

Se pensiamo di avere bisogno di una scuola diversa, pensiamo che i nostri interessi siano antagonistici a quelli del mercato, dei capitali privati che vi si scontrano e della mentalità aziendale che producono. La società in cui viviamo è basata su quegli interessi, e perciò la sua scuola è fatta così. Discutere di un modello di scuola radicalmente alternativo senza mettere in discussione il modello sociale non ha senso, è un ibrido tra l’infantilismo e l’intellettualismo da salotto.

Chiediamoci allora in quali interessi ci riconosciamo, quali aspetti del modello sociale vigente li contrastino, che tipo di scuola serva per contribuire ad affermarli e in quali condizioni oggettive si troverebbe a operare per farlo.

Chi siamo?

Siamo lavoratori della scuola. Più in generale, lavoratori del settore dell’istruzione e del sapere. Ancora più in generale, cittadini che vivono grazie alla vendita di una forza-lavoro con cui si producono merci immateriali. Non siamo missionari. Esercitiamo una professione che, nella nostra società, è un lavoro di massa. Un lavoro che spessissimo, per ragioni indipendenti dalla volontà del lavoratore, viene scelto per mancanza di opzioni alternative dello stesso livello. Pertanto, non può che essere esercitato in stragrande maggioranza da persone che lo esercitano per necessità, non per vocazione. Persone a cui deve essere pienamente riconosciuto il diritto di esercitarlo per quella causa e non altra. Qualunque prospettiva non tenga conto di queste premesse è ipocrita.

Essendo lavoratori, abbiamo come naturale avversario la scuola-azienda: non in quanto scuola, ma in quanto espressione di interessi di capitali privati in competizione fra loro. Abbiamo la naturale necessità di spezzare l’assetto dell’autonomia scolastica, che fa di ogni istituto una “grande famiglia” in concorrenza con le altre, che tende a generare al proprio interno un deleterio “spirito di corpo”. Essendo lavoratori, condividiamo gli stessi interessi di tutti i lavoratori: personale docente e non docente della scuola in cui ognuno di noi insegna e degli altri istituti scolastici, e chiunque, in qualunque settore, pubblico o privato, viva del proprio lavoro e non dello sfruttamento di quello altrui.

Abbiamo allora individuato la scuola che vogliamo, l’unica che potremmo chiamare “nostra”: una scuola che aiuti i futuri lavoratori a sviluppare strumenti per la loro emancipazione collettiva.

Ma naturalmente esercitare un mestiere per necessità non esime dal doverlo esercitare secondo la prevista deontologia, consapevoli delle sue specificità, dotandosi della necessaria preparazione e perseguendo gli obiettivi che consentono a quella professione di rendere un servizio alla collettività. Tali obiettivi, nel caso della scuola, non sono definibili considerando soltanto i lavoratori. Al centro del mondo scolastico vi è lo stretto rapporto fra un insieme di lavoratori e uno di non lavoratori: gli alunni. Dunque: chi sono, oggi, gli alunni?

Gli alunni

Riteniamo che tre fattori vadano tenuti in considerazione.

Il primo riguarda lo spazio occupato dalla scuola nell’educazione. Fino agli anni ’90 del XX secolo, pur con un’enorme variabilità fra zone, epoche, ambienti socio-culturali, l’universo educativo della persona che frequentava regolarmente le scuole aveva due poli dominanti: la scuola stessa e la famiglia. Era da questi due soggetti che veniva mediato il contatto con il mondo prima del raggiungimento dell’età adulta e dell’indipendenza. Altri ambienti, come quello ecclesiastico, quello militare per i ragazzi in occasione del servizio di leva, gruppi di pari, eventuali società sportive alle quali i più fortunati venivano iscritti etc., ricoprivano ruoli più marginali o meno trasversali all’intera popolazione, oppure intervenivano solamente verso la fine dell’adolescenza, quando ormai la formazione della personalità era incanalata. Faceva eccezione, in parte, il ruolo della chiesa, che fino agli anni ’60 del Novecento contese a scuola e famiglia il campo dell’educazione per lo meno nell’infanzia.

La ragazza o il bambino, il giovane o la preadolescente varcavano la soglia dell’aula e lì si affacciavano, tramite l’insegnante, su un mondo al quale non conoscevano altri accessi. Ne fosse consapevole o meno, chi insegnava nella scuola era responsabile dell’educazione delle nuove generazioni in misura cospicua, e in via esclusiva per quel che riguardava alcuni aspetti di essa.

Le cose cambiarono in parte con l’avvento della televisione. Essa fu un quarto soggetto coinvolto nell’educazione, ma aveva limiti oggettivi che ne condizionavano l’influenza. Per quasi tutta l’epoca che stiamo considerando, le emittenti televisive non trasmettevano 24 su 24, ma in determinate fasce orarie, che soltanto nel corso degli anni ’80 arrivarono a coprire tutte le ore diurne, mentre per palinsesti estesi all’intera notte bisognerà attendere il decennio successivo. Inoltre, il televisore era in quegli anni un elettrodomestico familiare, non portatile e inevitabilmente gestito in base alle regole stabilite dagli adulti di casa, i quali avevano la possibilità di vietarne l’uso indiscriminato. Infine, i programmi televisivi erano allora (oggi esistono eccezioni) prodotti realizzati e confezionati da professionisti secondo dispositivi di legge e codici deontologici analoghi a quelli delle altre professioni.

Per tutte queste ragioni, l’aggiunta della tv al novero dei soggetti coinvolti nell’educazione modificò sensibilmente il quadro, ma non lo stravolse.

Negli ultimi due decenni circa, l’alunno è antropologicamente mutato. Le persone che ci troviamo davanti fra i banchi, con una rapida digitazione sul loro dispositivo tascabile, hanno potenzialmente accesso giorno e notte, senza controllo e senza soluzione di continuità, a qualunque informazione prodotta da chiunque in qualsiasi momento in qualsiasi parte del mondo su qualsiasi tema, con qualsiasi mezzo, espressa in qualsiasi linguaggio e priva di qualsiasi mediazione fra l’emittente e il ricevente. Non c’è modo di evitare che tale emittente sia (come di fatto nella maggior parte dei casi è) un individuo che del tema trattato sa quanto il ricevente e delle regole della comunicazione ancora meno. E non c’è modo, per insegnanti e famigliari, di possedere sull’argomento specifico di ogni messaggio ricevuto dalla persona posta sotto la loro responsabilità strumenti di decodificazione superiori a quelli della persona medesima.

Il prodotto di tali dinamiche è una massa di bambini e adolescenti in possesso assai precario di una quantità abnorme, informe e sconclusionata di informazioni labilissime, dalla costante volatilità, e abituati a non doverle approfondire o fissare, perché sono sempre a portata di mano. Tale natura precaria e frammentaria del bagaglio cognitivo in loro possesso non cambia il fatto che esso viene maturato in misura preponderante al di fuori della scuola. È opportuno non sottovalutare questo aspetto della problematica e meditarvi a fondo: la sua più diretta conseguenza è che ogni qualvolta un insegnante si definisce “l’educatore” dei suoi alunni sta riflettendo sul proprio ruolo sociale con un macroscopico errore di prospettiva, immaginando la propria attività in un contesto in cui la scuola abbia la funzione che aveva ai tempi in cui lui era l’alunno. Piaccia o meno, noi non siamo più i principali fra pochi soggetti deputati all’educazione di quegli individui che sono nostri alunni. Siamo semplicemente coloro i quali li accompagnano per un tratto quantitativamente esiguo e qualitativamente non più centrale lungo il loro percorso educativo. Tuttavia, se hanno perso centralità, i docenti della scuola hanno forse addirittura accentuato la specificità del loro ruolo educativo: sono infatti rimasti gli unici a fornire a bambini e adolescenti una esperienza formativa strutturata e collettiva in una società liquida e individualistica in cui sono pochi i punti fermi, un’educazione alla complessità dove domina la semplificazione banalizzante. Occorre capire che deve farsi un costante esercizio autocritico perché l’astratta mentalità dell’educatore si cali nella realtà corrente in cui lo studente vive. Interrogarci su questa mutazione di senso del nostro ruolo è un’incombenza ineludibile, se si vuole evitare il rischio di fermarsi alla critica passiva dell’esistente e iniziare a immaginare una scuola veramente diversa.

Un secondo fattore che influisce sulla forma mentis dei nostri alunni è costituito dalle modalità in cui si svolge la comunicazione fra loro. La illustriamo con un esempio.

In una chat fra due adolescenti viene inviato il seguente messaggio:

Il contenuto semantico, nella sua genericità, è relativamente chiaro, ma non è strutturato. Questa operazione è a carico del destinatario, che dovrà decidere se il significato sia “Ti andrebbe una birra?” o “Hai bevuto birra?” o “Quando ce la beviamo una birra?” etc.

L’esempio è volutamente elementare, ma sappiamo che la stessa modalità si riproduce anche in casi molto più articolati. E soprattutto sappiamo che è ormai l’unica modalità di comunicazione esistente fra i giovani e i giovanissimi. Si noti di passaggio che poco cambia quando il messaggio ipotizzato è sostituito da questo:

«Birra?»

La sintassi, cioè la strutturazione discorsiva, logica, razionale della comunicazione, è aggirata. Che si impieghi il codice verbale, quello iconografico o qualunque altro, ci si preoccupa soltanto di suggerire il generico contenuto semantico del messaggio e il resto è lasciato al contesto e alla specifica intesa fra emittente e destinatario. È un modello semiotico che, per così dire, sostituisce la strutturazione del messaggio, atta a riprodurre i diversi possibili livelli di complessità del referente, con il principio della libera associazione di idee. Un modello nato in ambiente informatico e web e massicciamente mutuato nella comunicazione dal vivo.

Terzo ed ultimo fattore che prendiamo in considerazione è il contesto in cui tali processi avvengono. È il contesto che fin qui abbiamo parzialmente esaminato. Quello in cui sono salite in auge le competenze non cognitive e la “cultura terapeutica”, la mentalità individualistica e l’illusione dell’oggetto adattato al soggetto. Un contesto che organizza talk show nei quali i partecipanti alla discussione esprimono a turno le rispettive opinioni e, al termine del giro, il conduttore introduce un altro tema, senza che sul precedente sia avvenuto un reale confronto per verificare quale fra le proposte avanzate sia più efficace nell’affrontare il problema sul tavolo. Un contesto nel quale la giusta critica dell’approccio fideistico al progresso scientifico diventa attacco irrazionalistico all’idea di progresso e riduzione della scienza all’utilità del mercante. Il tutto mentre uno slogan martellante riverbera come un’eco inestinguibile ovunque: l’importante è esprimere le proprie emozioni.

Ecco da dove viene l’ingenua, spaesata, spaurita figura che ci siede di fronte in aula. Quell’essere spavaldo e fragile che passa da una crisi di panico a un atto di bullismo reale o presunto, subito o perpetrato. Quell’individuo che in qualsiasi frangente si sente dire dall’intera “società dello spettacolo”: “Esibisciti!” e se l’applausometro non decreta il trionfo scoppia in lacrime come ormai fanno i campioni di calcio quando sbagliano un calcio di rigore, increduli nello scoprire che sponsor e look all’ultima moda non li salvano dal ridicolo senso di fallimento per una partita persa.

Solitamente la riflessione su questa problematica assume la piega del preoccupato allarme: i nostri ragazzi! Come faranno così in balia del “mondo grande e terribile”? Dopo di che la preoccupazione sfocia in una sterile polemica su quanto e come si debba consentire l’uso di quei dispositivi tascabili, quanto e come si debba ricorrere alle vie terapeutiche per affrontare quelle crisi di panico, quanto e come quei rigoristi che piangono influenzino i giovani: “apocalittici” di qua, “integrati” di là.

La domanda che qui ci interessa è un’altra, e non può che essere aperta: la scuola che vogliamo che cosa e come dovrebbe provare a insegnare a questi alunni con qualche speranza di riuscirci?

Che fare?

Più volte in questa trattazione abbiamo dovuto toccare un tema che non siamo certo noi a porre per primi e che nessuno ha mai risolto: come fare ad avere una scuola che sia scuola di tutti, ma che per esserlo non rinunci a insegnare ciò che, nelle condizioni di partenza, è raggiungibile solamente da una minoranza? Come fare, cioè, a fare della scuola un mezzo per modificare quelle condizioni anziché assumerle come immutablili?
Soltanto affrontando questi interrogativi si dà vita a una scuola che persegue l’emancipazione delle classi popolari e inconciliabile con gli interessi del capitale e della sua scuola-azienda.

Un autore da noi più volte citato, Lucio Russo, propone un’interessante riflessione sui tentativi esperiti in passato per sostituire gli studi classici nei curricula scolastici con sintesi unificanti alternative. Ci associamo al suo giudizio negativo sugli esiti di quegli esperimenti105. Ravvisiamo, invece, un limite della sua posizione sul versante propositivo106. Egli si sforza di trovare vie per sottrarre all’asservimento al mercato la scuola di una società dominata dal mercato. Riconosciamo lo sforzo e ne condividiamo le intenzioni, ma ancor più condividiamo il pessimismo in proposito dello stesso Russo, esternato in varie occasioni pubbliche107. Lo studioso rileva come l’assottigliamento degli strati sociali intermedi portatori della cultura generale condivisa, di cui abbiamo parlato sulla scorta delle sue riflessioni, abbia ridotto la capacità della scuola di agire come “ascensore sociale”. È chiaro che la polarizzazione della società, anche da noi parzialmente descritta, toglie prospettive a chi intraprende un percorso scolastico per la propria emancipazione. Venendo a mancare gli sbocchi, all’emancipazione culturale si accompagna molto più raramente quella sociale. L’unico movente per lo studio rimane quindi la crescita culturale come fine in sé. La conclusione di Russo è che si debba pensare a una scuola per le ridottissime minoranze che faranno proprio tale movente.

Da parte nostra, riteniamo che questo possa forse rivelarsi un obiettivo tattico minimo a cui essere costretti nei tempi brevi o medi. Ma in prospettiva una scuola avversa alle logiche di mercato in una società fondata sul mercato non può esistere. Le apparenti eccezioni del passato non sono riproducibili in una fase di sviluppo del capitalismo mondiale avanzata come quella che attraversiamo. La scuola dei moderni paesi capitalistici in cui prevale il settore terziario è la scuola-azienda, e tale resterà. Non si dà soluzione al problema se non nella lotta per un’altra società e per un’altra umanità.


1 PNRR, pp. 15-16, documento scaricabile qui: https://www.governo.it/sites/governo.it/files/PNRR.pdf

2 Ivi, p. 26.

3 https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CONSIL:ST_10160_2021_ADD_1_REV_2&from=EN

4 Ivi, p. 73.

5 Ivi, p. 363.

6 Ivi, pp. 363-365.

7 Ivi, pp. 366-367.

8 Ivi, p. 374 (M4C1-4).

9 Ivi, p. 375 (M4C1-4), corsivo nostro.

10 https://www.miur.gov.it/web/guest/percorsi-its

11 https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CONSIL:ST_10160_2021_ADD_1_REV_2&from=EN, p. 366.

12 https://www.treccani.it/enciclopedia/stem_%28altro%29/

13 https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CONSIL:ST_10160_2021_ADD_1_REV_2&from=EN, p. 369.

14 Queste le aree disciplinari: Efficienza energetica, Mobilità sostenibile, Nuove tecnologie della vita, Nuove tecnologie per il Made in Italy (Sistema agroalimentare, Sistema casa, Sistema meccanica, Sistema moda, Servizi alle imprese), Tecnologie innovative per i beni e le attività culturali –Turismo, Tecnologie della informazione e della comunicazione.

15 Vedi n. 10.

16 https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CONSIL:ST_10160_2021_ADD_1_REV_2&from=EN,, p. 368, Riforma 1.5 e Riforma 2.1.

17 Ivi, pp. 368-369, Riforma 2.2.

18 https://www.scuolainforma.it/wp-content/uploads/2022/04/11_4_2022_Nov_d_lgs_59_2017.pdf.

19 Ivi, p. 7 art. 16-bis, c. 6.

20 Ivi, p. 7 art. 16-bis, comma 5.

21 Vedi nota precedente.

22 https://snv.pubblica.istruzione.it/snv-portale-web/

23 Il CV della Presidente INDIRE è scaricabile qui: https://www.solgroup.com/it/governance/organi-sociali/consiglio-di-amministrazione/cristina-grieco Membri CdA INDIRE: https://trasparenza-pa.net/action/download.php?file_id=1130118 e https://www.INDIRE.it/home/cda/maria-francesca-cellai/. Direttore Generale INDIRE: https://www.INDIRE.it/home/direttore-generale/. Presidente INVALSI: https://www.INVALSI.it/amm_trasp/cv/cda/CV-Europass-Ricci.pdf. CdA INVALSI: https://www.INVALSI.it/amm_trasp/cv/cda/CV_Mastrogiovanni.pdf e https://www.INVALSI.it/amm_trasp/documenti/cda_trasp/2021-CV_Vigan%C3%B2.pdf. Direttore Generale INVALSI: https://www.INVALSI.it/amm_trasp/cv/cv_Cinzia_Santarelli.pdf.

Comitato scientifico INVALSI: https://www.INVALSI.it/INVALSI/istituto.php?page=consiglio_scientifico.

24 Si noti, in aggiunta, che l’ambiente del SNV, stando alle indagini che finora l’hanno riguardato, non si rivela affatto efficiente, né trasparente nelle sue attività gestionali. Per l’INDIRE si veda qui: https://www.corteconti.it/HOME/Documenti/DettaglioDocumenti?Id=ffd65cd1-da6d-4a8f-9935-096e10fdba3d e qui: https://www.roars.it/online/dopo-linvalsi-ora-tocca-allindire-bacchettate-dalla-corte-dei-conti/ e per l’INVALSI qui: https://www.corteconti.it/HOME/StampaMedia/Notizie/DettaglioNotizia?Id=6f33b2e9-14ef-4075-bfb2-180d9712907c e qui: https://www.roars.it/online/corte-dei-conti-invalsi-ma-cosa-combini-e-quanto-ci-costi/

25 Ivi, p. 7 e ss.

26 https://www.roars.it/online/draghi-trascina-litalia-in-guerra-contro-la-scuola/

27 Un’idea di come tutto ciò sia già pienamente operativo e coinvolga l’intero apparato istituzionale, di concerto con il mondo aziendale, in un ridisegno dei percorsi scolastici fin dai cicli iniziali, la offre la “Carta di Genova”, approvata il 17/11/2021 dalle commissioni della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome Istruzione, Università e Ricerca (X commissione) e Formazione e Lavoro (XI commissione). Qui il documento: https://www.regione.emilia-romagna.it/sederoma/notizie/2021/varie/carta-di-genovala-scuola-delle-regioni-1.pdf/@@download/file/CARTA-DI-GENOVALA-SCUOLA-DELLE-REGIONI.pdf; qui una sua puntuale disamina critica: https://www.roars.it/online/la-riforma-dellorientamento-scolastico-1-la-carta-di-genova-e-il-nuovo-governo-degli-studenti/.

28 https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CONSIL:ST_10160_2021_ADD_1_REV_2&from=EN,, p. 368, Riforma 1.5.

29 https://curriculumstudente.istruzione.it/

30 https://www.savethechildren.it/blog-notizie/didattica-inclusiva-come-funzionano-le-classi-aperte

31 https://www.istruzione.it/archivio/web/istruzione/famiglie/autonomia-scolastica.html

http://www.usrfvg.gov.it/export/sites/default/it/home/menu/aree/Ordinamenti-primo-ciclo/istruzione-adulti/Normativa-Ida/Apprendimento-permanente/DPR_275_1999_ampliam_off_formativa.pdf

32 https://snv.pubblica.istruzione.it/snv-portale-web/public/ptof/ptof

https://www.miur.gov.it/documents/20182/0/nota+17832+del+16_10_2018+%281%29.pdf/763ea629-97a4-4dbe-8f01-72b0f899936b?version=1.0&t=1539775111356

33 Su questo tema esistono soltanto dati frammentari reperibili tramite singoli Uffici Scolastici Regionali. Sarebbe interessante avviare una ricerca per produrre un quadro di sintesi.

34 Si veda oltre, il paragrafo Formazione del soggetto e istruzione sull’oggetto.

35 https://www.INVALSIopen.it/quadro-europeo-competenze-chiave/

36 https://www.dors.it/documentazione/testo/201703/1993%20OMS%20lifeskill%20SCHEDA.pdf.

37 Per il Senato: https://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/DF/366973.pdf

Per la Camera: http://bianchinijesurum.it/wp-content/uploads/2022/01/leg.18.pdl_.camera.2372_A_competenze-non-cognitive.pdf.

38 http://www.territorioscuola.com/download/legge_10_Febbraio_2000_n30_Riforma_Berlinguer.pdf.

39 Vedi sopra.

40 Vedi nota 23.

41 Vedi paragrafo “Imparare a imparare”, didattica non trasmissiva, multimedialità, PCTO, griglie e test.

42 https://www.parlamento.it/parlam/leggi/97059l.htm

43 https://www.edscuola.it/archivio/norme/leggi/l148_90.html

44 https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/1990/11/23/090G0387/sg

45https://www.gazzettaufficiale.it/atto/serie_generale/caricaDettaglioAtto/originario?atto.dataPubblicazioneGazzetta=1997-12-12&atto.codiceRedazionale=097G0460&elenco30giorni=false

https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2000/02/23/000G0063/sg

46 https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2003/04/02/003G0065/sg e https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2005/11/05/005G0225/sg

47 https://it.wikipedia.org/wiki/Riforma_Gelmini

48 https://it.wikipedia.org/wiki/Peer_education

49 https://it.wikipedia.org/wiki/Apprendimento_cooperativo

50 In questo paragrafo ci limitiamo a sottoporre a critica il principio dell’interdisciplinarità per come viene attualmente declinato nella scuola pubblica italiana. Per una più ampia disamina dello snaturamento del concetto nell’attuale cultura occidentale si veda Lucio Russo, La cultura componibile. Dalla frammentazione alla disgregazione del sapere, Liguori 2008, in particolare il capitolo Interdisciplinarità vera e falsa.

51 https://www.treccani.it/vocabolario/interdisciplinare/.

52 https://www.dizionario-latino.com/dizionario-latino-italiano.php?lemma=DISCIPLINA100.

53 https://www.dizionario-latino.com/dizionario-latino-italiano.php?lemma=INTER100.

54 https://www.treccani.it/vocabolario/trasversale/.

55 https://www.dizionario-latino.com/dizionario-latino-italiano.php?parola=trans.

56 https://www.dizionario-latino.com/dizionario-latino-italiano.php?lemma=verto.

57 Vedi sopra, nota 6.

58 https://www.miur.gov.it/documents/20182/0/ALL.+Linee_guida_educazione_civica_dopoCSPI.pdf/8ed02589-e25e-1aed-1afb-291ce7cd119e?t=1592916355306

59 https://www.agenziacoesione.gov.it/comunicazione/agenda-2030-per-lo-sviluppo-sostenibile/

60 Per una disamina documentata e approfondita si veda Mauro Boarelli, Contro l’ideologia del merito, Laterza, 2019, in particolare il capitolo L’invenzione delle competenze, con i riferimenti bibliografici.

61 Dalle slide del laboratorio formativo “Didattica inclusiva degli alunni con BES e DSA” a cura della prof.ssa Maria Somma, Formazione docenti neoassunti A. S. 2021/2022 gestita dall’INDIRE.

62 Sulle dinamiche esposte in questo paragrafo, e sul più ampio concetto di “Cultura terapeutica” nella scuola e nella società, si veda Mauro Boarelli, Op. cit., in particolare il capitolo Colpevoli e vittime, p. 80 e ss., con i riferimenti bibliografici a p. 134-135.

63 “Forma” e “sostanza” sono termini che impieghiamo perché sufficientemente maneggevoli, anche facendo riferimento ai rispettivi significati nel linguaggio comune: ci sembra che qui il puntiglio terminologico conti meno della chiarezza.

64 Istruzione: https://www.treccani.it/vocabolario/istruzione/; formazione: https://www.treccani.it/vocabolario/formazione/; educazione: https://www.treccani.it/vocabolario/educazione/.

65 D’Itollo, Santacroce, Perotti, Memoria futura. Corso di storia, geografia, educazione civica, vol. 2, Dalla crisi della Repubblica al Sacro romano impero germanico, Lattes, 2022, p. 282.

66 Oggi Percorsi per le Competenze Trasversali e per l’Orientamento, fra breve forse Alternanza Formativa per l’Orientamento (vedi rimandi della nota 27)… ma a questo punto si sarà capito che non siamo amici del gattopardo.

67 https://www.anpal.gov.it

68 https://www.miur.gov.it/-/iscrizioni-i-primi-dati-il-57-8-degli-studenti-sceglie-i-licei-il-30-3-gli-istituti-tecnici-l-11-9-i-professionali

69 Dati Istat-Il Sole 24 ore: https://www.ilsole24ore.com/art/nascite-picchiata-sud-meno-40percento-ultimi-20-anni-resistono-parma-e-bolzano-AEtex0BB?refresh_ce=1

70 Si veda in proposito, Lucio Russo, La rivoluzione dimenticata. Il pensiero scientifico greco e la scienza moderna, Nuova edizione completamente rivista, Feltrinelli 2021, § 7.1: Gli studi filologici e linguistici. Si veda inoltre, dello stesso autore, Perché la cultura classica. La risposta di un non classicista, Mondadori 2018, Cap. VI: Gli studi sulla lingua.

71 Per le specificità del caso italiano, Ornella Pompeo Faracovi, 150 anni di scuola pubblica in Italia. Educazione umanistica e educazione scientifica dopo l’unità, Ebooks del Centro Studi Enriques – 1, Livorno 2012, pp. 12-13. Scaricabile qui: http://www.centrostudienriques.it/pubblicazioni_digitali/ebook-1_CSE_150anni_di_scuola_pubblica_in_Italia.pdf

72 Per una trattazione dettagliata del processo, Lucio Russo, Perché la cultura classica. La risposta di un non classicista, Mondadori 2018, Cap. XV: Recupero e abbandono di Euclide.

73 Per un approfondimento puntuale, Lucio Russo, La rivoluzione dimenticata. Il pensiero scientifico greco e la scienza moderna, Nuova edizione completamente rivista, Feltrinelli 2021.

74 Federigo Enriques a Giovanni Vailati, 17 maggio 1902, citato in Ornella Pompeo Faracovi, Federigo Enriques, filosofo, p. 199, estratto da Pianeta Galileo, Atti, Regione Toscana, Consiglio Regionale, Firenze 2005, scaricabile qui: https://www.consiglio.regione.toscana.it/pianeta-galileo/default.aspx?idc=65&nome=atti_2005-2006.

75 Per una descrizione approfondita, Lucio Russo, La rivoluzione dimenticata. Il pensiero scientifico greco e la scienza moderna, Nuova edizione completamente rivista, Feltrinelli 2021, in particolare cap. 1. La nascita della scienza e cap. 6. Il metodo scientifico ellenistico.

76 Ivi cap. 1. La nascita della scienza. Dello stesso autore, Perché la cultura classica. La risposta di un non classicista, Mondadori 2018, cap. XVII: Linguistica, retorica e logica. Sul ruolo della retorica nella paidèia antica, Werner Jaeger, Paideia. La formazione dell’uomo greco, Bompiani 2003, in particolare Libro quarto, cap. II: La retorica d’Isocrate come ideale di cultura. Per una trattazione approfondita del trivium e delle arti liberali nel Medioevo, Ernst Robert Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino, La Nuova Italia 1997, cap. III: Letteratura e istruzione e cap. IV: Retorica.

77 Per una disamina del fenomeno, Luciano Canfora, La democrazia. Storia di un’ideologia, Laterza 2008, cap. 2: L’atto di nascita: la democrazia nell’antica Grecia.

78 L’esposizione puntuale della proposta in Lucio Russo, La rivoluzione dimenticata. Il pensiero scientifico greco e la scienza moderna, Nuova edizione completamente rivista, Feltrinelli 2021, in particolare cap. 1: La nascita della scienza.

79 Per una descrizione sintetica del fenomeno, Lucio Russo, Perché la cultura classica. La risposta di un non classicista, Mondadori 2018, Cap. X: Una sintesi.

80 «Dicebat Bernardus Carnotensis nos esse quasi nanos gigantium humeris insidentes, ut possimus plura eis et remotiora videre, non utique proprii visus acumine, aut eminentia corporis, sed quia in altum subvehimur et extollimur magnitudine gigantea». Metalogicon III, 4.

81 Un’attenta disamina di questo contrasto in Lucio Russo, Perché la cultura classica. La risposta di un non classicista, Mondadori 2018.

82 σῶζειν τὰ φαινόμενα: in Plutarco, Moralia 920a-945e [Catalogo di Lampria 73] – Περὶ τοῦ ἐμφαινομένου προσώπου τῷ κύκλῳ τῆς σελήνης – De facie quae in orbe lunae apparet, 1-6. Una traduzione italiana in rete dell’opera si trova qui: http://www.scienzaatscuola.it/alone/documenti/volto-luna.pdf.

83 Lucio Russo, La rivoluzione dimenticata. Il pensiero scientifico greco e la scienza moderna, Nuova edizione completamente rivista, Feltrinelli 2021, p. 217.

84 Vedi nota 75.

85 Una esemplificazione documentata delle lontane origini dell’approccio in Lucio Russo, Perché la cultura classica. La risposta di un non classicista, Mondadori 2018, p. 88 e ss.

86 Ad esempio, Lucio Russo, Perché la cultura classica. La risposta di un non classicista, Mondadori 2018, p. 206.

87 Ivi, cap. VII: Il debito dei lessici europei verso il greco e cap. XIV: La storia di qualche termine scientifico.

88 Per una disamina critica, Gherardo Ugolini, Lingue classiche e Ginnasio umanistico tedesco, in Lingue antiche e moderne, vol. 1, Udine 2012, scaricabile qui: https://lingue-antiche-e-moderne.it/article/view/1076.

89 Si veda quanto affermato sopra a proposito dell’influenza del Romanticismo.

90 Si veda in proposito Luciano Canfora, Prolusione, in Disegnare il futuro con intelligenza antica. L’insegnamento del latino e del greco antico in Italia e nel mondo, a cura di Luciano Canfora e Ugo Cardinale, Il Mulino 2012, pp. 25-32.

91 Una approfondita analisi, con il testo integrale della relazione riportato in appendice, in Patrizia Morelli, Contro la «pedanteria grammaticale». La relazione di Giovanni Pascoli sull’insegnamento del latino nei ginnasi-licei al ministro della Pubblica Istruzione Ferdinando Martini (1893), in «History of Education & Children’s Literature», II, 2 (2007), scaricabile qui:

https://www.academia.edu/10373874/_Contro_la_pedanteria_grammaticale._la_relazione_di_Giovanni_Pascoli_al_Ministro_Ferdinando_Martini_sullinsegnamento_del_latino_

92 Ad esempio nell’introduzione dell’approccio storicistico, per il quale si veda Luciano Canfora, testo citato alla nota 90.

93 Alcuni esempi in Lucio Russo, Perché la cultura classica. La risposta di un non classicista, Mondadori 2018, pp. 27, 28, 107.

94 A titolo di esempio, si veda la prova di ammissione all’Università di Harvard del 1869, disponibile qui: https://www.peterkrantz.com/2012/harvard-university-entrance-exam-1870/harvard-admission-1899.pdf

95 Gherardo Ugolini, articolo citato, p. 14.

96 Lucio Russo, Perché la cultura classica. La risposta di un non classicista, Mondadori 2018, p. 109.

97 Ad esempio la legge Orlando del 1904, poi abrogata nel 1911: https://www.gazzettaufficiale.it/eli/gu/1904/07/21/170/sg/pdf

98 Lucio Russo, Perché la cultura classica. La risposta di un non classicista, Mondadori 2018, p. 109.

99 Una disamina approfondita di questo passaggio storico in Lucio Russo, Segmenti e bastoncini. Dove sta andando la scuola?, edizione aggiornata, Feltrinelli, 2000.

100 Non è un’iperbole grottesca: quella specializzazione esiste davvero

101 Lucio Russo, La cultura componibile. Dalla frammentazione alla disgregazione del sapere, Liguori 2008, pp. 19-20.

102 https://www.britannica.com/science/Dunning-Kruger-effect

103 Sullo specialismo attuale e sui suoi rapporti con il tramonto della cultura generale si veda Lucio Russo, La cultura componibile. Dalla frammentazione alla disgregazione del sapere, Liguori 2008, in particolare i capitoli Specialismo e ignoranza: due facce della stessa medaglia e Qualche esempio dello specialismo.

104 Ivi, p. 4.

105 Lucio Russo, Perché la cultura classica. La risposta di un non classicista, Mondadori 2018, pp. 113-115.

106 Ivi, Epilogo e, dello stesso autore, Segmenti e bastoncini. Dove sta andando la scuola?, edizione aggiornata, Feltrinelli, 2000, cap. 7: Possibili contenuti di una buona scuola e la triplice appendice Addenda.

107 Ad esempio in questo incontro: https://www.youtube.com/watch?v=W_2mT4YLpjM